La Disfida e Barletta
perché la città ritorni “caput regionis”
Decadimento. È la parola che dà il titolo al terzo e ultimo
libro della Storia della città di Barletta di Sabino
Loffredo, che apre il suo primo “capo” con la narrazione dei
significativi eventi che condussero alla «rottura dei Francesi e
Spagniuoli nella partizione del Reame, e fatti che precedettero
l’assedio di Barletta» e si chiude con il ricordo di un evento
traumatico, la «distruzione de’ Borghi S. Vitale e S. Antonio
Abate» e con la «Ribellione de’ Barlettani e saccheggio della
Città; indi uscita de’ Francesi per la pace di Cambrai nell’agosto
1529». Il Loffredo, dunque, dedicava un intero capo della
sua opera, pubblicata nel 1893, a poco più di un trentennio
dall’avvenuta unificazione della penisola italiana, ai fatti che
avvennero in Puglia e in particolar modo a Barletta in circa
ventisette anni, tra il 1502 e il 1529. È questo il lasso di
tempo in cui, secondo lo storico barlettano, la città avrebbe
perduto il ruolo di “Caput Regionis” come «continuava sopra
tutto ad essere da meglio di tre secoli», e i barlettani «in tanta
ruina della patria [ ... ] vedevano l’azione roditrice delle loro
discordie».
Se Barletta fosse o meno capitale della Puglia medievale,
opinione costruita dal Loffredo sulla base dall’errata lettura
di un passo del “De bello neapolitano” del Pontano, poco
oggi importa. Certo, quello che, nel luglio 1502, si presenta
a Consalvo da Cordova e all’esercito iberico quando varcanole porte della
città è certamente
un centro popoloso
e importante,
agriporto di Puglia
da lungo tempo
proiettato nel Mediterraneo,
snodo
commerciale e finanziario
di rilevanza
internazionale,
sede di una
Chiesa orgogliosa
e di numerosi e
potenti casati patrizi.
Una città che
aveva accolto gli aragonesi, mezzo secolo prima, da pari a
pari, e nella quale la rappresentazione del potere del proprio
ceto dirigente, diviso in “nobili” e “popolari”, si era manifestata
in un potente traslato monumentale con la risistemazione
della statua colossale in bronzo nella “Platea magna”, quinta
scenica del Sedile del Popolo addossato alla chiesa del Santo
Sepolcro. I barlettani del tempo chiamarono quella parte
dell’attuale corso Vittorio Emanuele “Loco de Aracho”, perché all’imperatore Eraclio pensarono quando sistemarono lì il colosso: l’imperatore che aveva recuperato alla cristianità il
culto della Vera Croce, della quale nella chiesa del Sepolcro si
venerava una reliquia millenaria.
A Barletta, città aragonese, il 4 febbraio 1459 era stato
incoronato Ferrante d’Aragona il quale, dopo la vittoria della
guerra contro Giovanni d’Angiò, fu munifico di privilegi e
concessioni con la città che aveva visto il suo trionfo iniziale.
Concesse gli statuti e le loro modifiche successive e benefici
alla chiesa cittadina e a quella di Nazareth, che a Barletta aveva
sede con i suoi vescovi. Una città emporio è stata definita
recentemente da una storica napoletana, Giuliana Vitale. Una
città dal corpo politico ampio, fortemente consapevole della
propria centralità e importanza per gli equilibri del Regno napoletano
e, soprattutto, per la stabilità della corona aragonese.
Consalvo vi entrò nel suo momento peggiore. Attendeva
rinforzi che tardavano ad arrivare e l’esercito francese si faceva
sempre più pressante e aggressivo. Ma Consalvo era un
grande stratega, e seppe cosa fare. Utile e dilettevole, diremmo
oggi. Scaltro, disperse in più occasioni i francesi, affaccendandoli
in piccole scaramucce giornaliere. Furbo, sapeva che
gli orgogliosi cavalieri francesi non avrebbero saputo resistere alla tentazione della singolar tenzone,
del duello cavalleresco, della giostra, del
torneo. È quanto avvenne il 13 febbraio
1503, quando 13 cavalieri italici sconfissero
non solo altrettanti francesi, ma anche,
e definitivamente, l’alterigia e la tracotanza
della cavalleria gallica, del duca di
Nemours, suo comandante, che di lì a poco
sarebbe stato sfidato in battaglia campale
a Cerignola, rimettendoci, insieme alla
vita, anche la guerra. Il duca di Nemours
sarebbe stato sepolto a Barletta con tutti
gli onori militari, per volontà di Consalvo.
Ma, oggi, della sua tomba non resta nulla,
distrutta, forse, insieme a gran parte della
storia di quella città opulenta e vittoriosa
nella distruzione dei due borghi di San
Vitale e Sant’Antonio avvenuta per mano
di Renzo da Ceri nel 1528. L’idea di una
decadenza della città dai fasti di un antico
splendore fu forse alimentata in Loffredo
oltre che da sentimenti patriottici tipici
della sua epoca anche dalla lettura di un’epigrafe
nota ai suoi contemporanei. Essa
così recita: NEL ANNO 1528 FU SACHEGIATA
ET DESTRUCTA BARLECTA PER LA
DISCORDIA DE LI CITATINI.
Salvatore Santeramo, qualche decennio
dopo Loffredo, riconobbe nelle carte
dell’archivio del Capitolo della chiesa di
Santa Maria il misterioso autore di quel
testo. Si trattava di Pietro Giacomo Tartaglio,
canonico del capitolo della stessa
chiesa, vissuto tra il 1505 e il 1586. Memoria
civile di una città che si presentò a
quell’evento all’apice della propria vicenda
culturale, politica, economica. E dopo
quell’evento traumatico, con altrettanta
forza iniziò la ricostruzione, per ricominciare.
La città storica oggi visibile è quella
dell’età moderna, figlia di quel riassetto
urbanistico. Ma la storia degli eventi del
1503, insieme al potente mito rinascimentale
e risorgimentale che da quegli eventi
e dalla Disfida discende, è il punto di partenza
fondamentale per comprendere meglio
Barletta e la sua vicenda nel tempo. “La
Disfida di Barletta. Storia, Fortuna, Rappresentazione”,
convegno internazionale che
si è aperto nella sala rossa del castello edè proseguito a Palazzo della Marra, vuole essere
solo il punto di partenza di una riflessione
scientifica complessa, che rimetta al
centro Barletta, definitivamente, della scena
internazionale, restituendole quel ruolo
di “Caput regionis” che, senza retorica, le
appartiene di fatto.
Victor Rivera Magos
(febbraio 2017)
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