| Ettore Fieramosca Quella dei Ferramosca, come originariamente si chiamava, 
                            era una delle famiglie più antiche e più 
                            nobili di Capua e nel corso degli anni si era distinta 
                            per il valore dimostrato sul campo e la fedeltà manifestata 
                            nei confronti delle signorie per le quali aveva combattuto. 
                            Il nonno Rossetto, al servizio dei Veneziani, era 
                            stato tanto prode in battaglia, da meritarsi l'appellativo 
                            di "terrore dei Turchi". Ettore nacque a Capua nel 
                            1476 da Rainaldo, barone di Roccadevandro, anche lui 
                            capitano di ventura, e da una nobildonna della casa 
                            di Gaetano d'Aragona. Il piccolo Ettore ebbe un'ottima 
                            educazione umanistica e fu presto avviato alla carriera 
                            militare, cominciando dal gradino più basso, 
                            introdotto alla corte aragonese di re Ferrante come 
                            paggio. Ancora giovanissimo, alla fine del 1493, il 
                            padre gli allestì una compagnia di balestrieri a cavallo, 
                            che pose al servizio degli aragonesi. Alla discesa 
                            di Carlo VIII in Italia, nel 1494, mentre Federico, 
                            fratello di re Alfonso, affrontava i Francesi a Rapallo, 
                            Ettore era al seguito di Ferrandino, figlio del re, 
                            mandato in Romagna per cercare di contrastare gli 
                            invasori. Con la sconfitta di Rapallo, Alfonso abdicò 
                            a favore di Ferrandino, al cui seguito Ettore scese 
                            nel napoletano, per tentare un'impossibile resistenza: 
                            prima a Capua, Napoli e Ischia e poi, nel settembre 
                            dello stesso anno, in Calabria, alla battaglia di 
                            Seminara, per la prima volta al fianco del Gran Capitano 
                            Consalvo da Cordova. Ettore e il suo giovane sovrano 
                            si ritrovano assieme un'ultima volta nello scontro 
                            di Atella, l'anno dopo, dove il coraggioso Ferrandino 
                            sconfisse i Francesi e rioccupò il trono 
                            perduto ( luglio 1495). Vittoria effimera perché gli 
                            restavano solo pochi mesi di vita. Passò 
                            quindi al servizio del nuovo sovrano, Federico, che 
                            seguì all'assedio di Gaeta, nel novembre del '96, 
                            da dove vennero scacciati gli ultimi Francesi del 
                            disfatto esercito di Carlo VIII. A Gaeta s'incontrò 
                            col padre, lui pure alla testa di una compagnia di 
                            cavalieri, ma fu per l'ultima volta, perché gli morì 
                            proprio mentre assaltavano i bastioni. Nel maggio del 1497 il sovrano aragonese lo inviò 
                            nelle Marche, ad Ascoli, per sedare una grave ribellione, 
                            dove il giovane capitano si distinse nella difesa 
                            del castello di Offida. Un anno dopo, nei primi mesi 
                            del 1498, Ettore occupava il castello di Caspoli e 
                            per una parte veniva legittimato a tenere anche quello 
                            dei Galluccio, espropriato a Giovan Filippo come rappresaglia 
                            per l'alleanza che questa famiglia aveva stipulato 
                            coi Francesi. E arriviamo al fatidico 1501, anno in 
                            cui Francesi e Spagnoli scesero nel napoletano per 
                            dare esecuzione al trattato segreto di Granata, stipulato 
                            nel novembre dell'anno precedente, con cui Luigi XII 
                            e Ferdinando il Cattolico avevano deciso di spartirsi 
                            il regno di Napoli. Mentre gli Spagnoli risalirono 
                            in Puglia dalla Calabria, i Francesi scesero dal Nord. 
                            In un primo momento comandati dal d'Aubigni, e successivamente 
                            dal duca di Nemours, avevano al seguito Cesare Borgia 
                            (a cui il re francese aveva poco prima concesso il 
                            ducato di Valentinois) e Roberto Sanseverino conte 
                            di Caiazzo, capo dei ribelli della casa Sanseverino, 
                            la potente famiglia feudale che si era ribellata ai 
                            sovrani aragonesi. Federico, in un primo momento all'oscuro 
                            del patto fra i due monarchi, aveva anzi chiesto aiuto 
                            a Consalvo da Cordova, che qualche anno prima aveva 
                            aiutato suo nipote Ferrandino a risalire sul trono. Fatto consapevole dell'inganno, si rivolse ai famosi 
                            capitani Fabrizio e Prospero Colonna. Mandò quindi 
                            il primo a difendere Capua con 300 cavalieri e 4.000 
                            fanti. Frattanto, contando sui numerosi feudatari 
                            restatigli ancora fedeli, si dispose ad attaccare 
                            le forze del Sanseverino sulla piana di Venafro. Ma 
                            tradito da Matteo Acquaviva duca d'Atri, da Troiano 
                            Caracciolo principe di Melfi e da Berardino Sanseverino 
                            principe di Bisignano, sulla cui neutralità aveva 
                            fin allora contato, si diresse verso la selva di Vairano 
                            dove, vista l'inutilità di ogni sforzo, sciolse il 
                            suo esercito ormai allo sbando e si portò a Napoli, 
                            dove si rifugiò in Castel Nuovo, organizzando di qui 
                            un disperato tentativo di patteggiamento col nemico. 
                            Ma il d'Aubigni, dopo aver ottenuto 60.000 ducati 
                            d'oro, ne pretese altri 100.000, e il sovrano comprese 
                            allora che ogni ulteriore sforzo su questo terreno 
                            sarebbe stato vano. Tentò allora un'estrema disperata 
                            difesa militare. Non restava che l'ultimo baluardo, 
                            la fortezza di Capua, a contrastare l'avanzata dei 
                            Francesi, le cui avanguardie, il 12 luglio del 1501, 
                            avevano occupato il castello di Calvi, peraltro presto 
                            rioccupato dagli aragonesi guidati dal Fieramosca. I Francesi, cinta d'assedio la roccaforte campana, 
                            tentarono in ogni modo di ottenere dagli assediati 
                            una sollecita resa, e per giunta senza condizioni. 
                            Sprezzante fu sempre il rifiuto dei Capuani arroccati 
                            nelle antiche mura della città; atteggiamento che 
                            avrebbe esasperato gli assedianti inferociti per tanta 
                            orgogliosa resistenza. L'assedio di Capua, protrattosi 
                            per diversi giorni, si concluse il 24 luglio con un 
                            orribile massacro in cui si distinsero per brutalità 
                            e ferocia gli uomini del Valentino. Gli armati che 
                            difendevano la città, circa 3.000 fanti e 2.000 cavalieri 
                            furono impiccati sugli spalti del Castello, mentre 
                            pressocchè altrettanti inermi cittadini venivano passati 
                            per le armi. Molte furono le donne violentate e molte 
                            altre furono fatte prigioniere dal Valentino e condotte 
                            a Roma per essere vendute nei lupanari di quella città. 
                            Federico, che gi il 20 luglio si era ritirato a Ischia, 
                            dopo la disfatta di Capua, consapevole dell'inutilità 
                            di ogni ulteriore resistenza, dopo una breve trattativa, 
                            il 5 agosto sottoscrisse un patto col d'Aubigni col 
                            quale rinunciava al trono e si dava prigioniero nelle 
                            mani del sovrano francese, a condizione di ricevere 
                            in cambio la contea del Maine e una congrua pensione 
                            vitalizia. Partì dopo due giorni, condotto in Francia 
                            col suo seguito da cinque galee, accompagnato da pochi 
                            nobili restatigli devoti, fra cui Andrea Carafa e 
                            Jacopo Sannazzaro, e scortato da un drappello di cavalieri 
                            comandati dal Fieramosca. L'assenza del nostro capitano dovette essere aspramente 
                            biasimata dai suoi concittadini, se il 20 gennaio 
                            del 1502 la Regia Camera della Sommaria, considerandolo 
                            un traditore, oltre a stigmatizzarne pubblicamente 
                            la defezione, lo privò della rendita della gabella 
                            che fino allora aveva riscosso. Questa disonorevole 
                            decisione dové irritare molto il nostro eroe e al 
                            tempo stesso affrettare il suo rientro, avvenuto presumibilmente 
                            verso febbraio - marzo dello stesso anno, proprio 
                            in tempo per aggregarsi alle bande colonnesi che, 
                            al seguito di Consalvo da Cordova, iniziavano in quelle 
                            settimane l'occupazione della Puglia: prima l'espugnazione 
                            di Taranto, dove veniva fatto prigioniero il giovanissimo 
                            Ferdinando figlio di Federico e ultimo rampollo della 
                            famiglia aragonese, successivamente l'occupazione 
                            di Andria, Canosa e Manfredonia e, in estate, quella 
                            di Barletta. Quindi l'acquartieramento in questa città, 
                            le spedizioni nelle campagne circostanti, i duelli 
                            cavallereschi e le sfide fra gruppi di cavalieri, 
                            le modeste imboscate che la pianeggiante natura dei 
                            luoghi banalizzava nella quotidianit di una logorante 
                            guerriglia di attesa. Insomma, nulla di particolarmente 
                            esaltante perché restasse memoria, nei secoli futuri, 
                            di un sia pur nobile cavaliere di ventura chiamato 
                            Ettore Fieramosca, se per un fortunato accidente non 
                            fosse capitato, fra una scaramuccia e l'altra, l'episodio 
                            di quella memorabile cena, preparata ad arte finch 
                            si vuole dagli scaltri Spagnoli per aizzare la collera 
                            dei Francesi, mai però tanto consapevoli di quanto 
                            potesse quella sfida, il 13 febbraio del 1503, portare 
                            alto l'onore delle nostre armi. E un poco anche il 
                            nostro italico orgoglio. Due mesi dopo la Disfida, gli eventi incalzano e 
                            precipitano. Gli eserciti si scontrarono in una battaglia 
                            sanguinosa e definitiva per le sorti della guerra. 
                            Nella battaglia di Cerignola rifulse ancora una volta 
                            il valore del Fieramosca e degli altri cavalieri italiani. 
                            E fu anzi il nostro eroe che, al comando di una brigata 
                            di cavalieri, inseguì folti drappelli di Francesi 
                            in fuga sin nel contado di Capua. Dopo Cerignola, 
                            Gaeta, l'altra memorabile battaglia di quel memorabile 
                            millecinquecentotre, come lo definisce Guicciardini. 
                            Sul Garigliano si confrontarono ancora una volta le 
                            armi francesi e quelle spagnole. In un primo momento 
                            le soverchianti forze d'oltralpe stavano per aver 
                            ragione di quelle ispaniche, quando l'arrivo del capitano 
                            Bartolomeo d'Alviano sovvertì l'esito della battaglia. 
                            Il nostro eroe era nel folto della mischia dove si 
                            destreggiò come sempre coraggiosamente. Dopo queste 
                            battaglie, il Fieramosca, che per essersi distinto 
                            per il coraggio dimostrato, era stato insignito del 
                            titolo di cortigiano del Re, con altri nobili, nell'agosto 
                            del 1504, si recò in Spagna non solo per ringraziare 
                            il sovrano per l'onorificenza accordatagli, ma anche 
                            come capo di una delegazione di Capuani che reclamavano 
                            alcuni privilegi per l'antica e nobile città campana. 
                            Re Ferdinando non solo accordò i privilegi richiesti 
                            dalla città, ma conferì al nobile capitano il titolo 
                            di conte di Miglionico e signore di Acquara, in riconoscimento 
                            dei servizi resi e della lealtà dimostrata. Lo autorizzò 
                            inoltre a ornare il suo scudo con un leone rampante 
                            che aggredisce il giglio di Francia. Ma queste liberalità 
                            non durarono a lungo. Con la fine della guerra, infatti, Consalvo da Cordova, 
                            frattanto nominato vicerè del Regno, avviò un lento 
                            processo di normalizzazione e di recupero degli antichi 
                            feudatari alla corona spagnola, con l'impegno, dopo 
                            il giuramento di fedeltà ai nuovi sovrani, di restituzione 
                            di tutti i possedimenti perduti, anche di quelli confiscati 
                            anteriormente alla guerra. Fra i danneggiati da questo 
                            provvedimento, c'era anche il nostro Fieramosca il 
                            quale restò amareggiato non tanto per la restituzione 
                            del feudo di Miglionico al suo legittimo titolare, 
                            la famiglia Sanseverino, quanto per quella del castello 
                            di Roccadevandro che suo padre aveva ricevuto da re 
                            Ferrante, come ricompensa della lealtà dimostrata 
                            in tanti anni di onorevole servizio. Consalvo da Cordova, 
                            a parziale indennizzo del grave danno recatogli, dispose 
                            che al capitano Fieramosca venisse corrisposta una 
                            indennit di 600 ducati l'anno, ma Ettore rifiutò 
                            sdegnosamente e quando venne il momento di rendere 
                            esecutivo il passaggio dal vecchio al nuovo feudatario, 
                            il cavaliere capuano prefer farsi imprigionare, piuttosto 
                            che subire passivamente il sopruso. A Ettore rimase 
                            così soltanto la contea di Mignano. Egli ne restò 
                            così sdegnato, che non perdonò mai al re di Spagna 
                            questo grave affronto, tanto che per molto tempo restò 
                            inoperoso e anzi, nel 1510 apprendiamo, dai diari 
                            di Marin Sanudo, di un suo tentativo di mettersi al 
                            servizio dei Veneziani, se gli fosse stata riconosciuta 
                            la condotta di 100 uomini d'armi e 100 cavalieri per 
                            sè, e altrettanti per i suoi fratelli Guido e Cesare. 
                            L'intento di porsi al servizio di Venezia era una 
                            ritorsione contro gli Spagnoli che a Napoli avevano 
                            pubblicato un bando dove si faceva espresso divieto 
                            a tutti i sudditi napoletani di mettersi al servizio 
                            della Serenissima, pena la morte e la confisca dei 
                            beni. Due anni dopo, nel 1512, lo ritroviamo a Ravenna 
                            al servizio di Fabrizio Colonna. La battaglia, come 
                            quella di Pavia, è fra le più importanti del secolo. 
                            Vi giganteggia la figura del maresciallo di Francia, 
                            Gastone di Foix, la folgore d'Italia, come venne ribattezzato 
                            per la rapidità fulminea dei suoi spostamenti. Ritorna 
                            ancora una volta alla mente la città di Barletta e 
                            i protagonisti della sua epica stagione, dieci anni 
                            prima, perché questo Gastone è nipote di quel duca 
                            di Nemours, sfortunato condottiero dei Francesi nella 
                            battaglia di Cerignola. Ne porta lo stesso titolo, 
                            ma quale diversa statura! Ha solo 23 anni ma è il 
                            dio della guerra. Onnipresente e invitto anche in 
                            quella fatidica domenica, 11 aprile, giorno di Pasqua. 
                            Farà vincere la battaglia ai colori francesi ma lui, 
                            il comandante in capo, lo troveranno esanime al centro 
                            della pugna, dove la mischia era stata più cruenta, 
                            sfigurato da diciotto archibugiate. Alla battaglia 
                            di Ravenna ritroviamo, col Fieramosca, molti altri 
                            protagonisti, grandi e piccoli, di quel teatro d'operazioni 
                            ch'era stata qualche anno prima la città di Barletta: 
                            fra i Francesi Lapalisse, d'Aubigni e Baiardo. Fra 
                            gli Spagnoli Fabrizio Colonna e Pedro Navarro. Dei 
                            tredici cavalieri, col Fieramosca, erano presenti 
                            Mariano Abignente, Guglielmo d'Albamonte, Brancaleone 
                            al servizio del Colonna, Capoccio romano, Fanfulla 
                            da Lodi e Romanello da Forl col duca di Termoli. Che Fieramosca abbia effettivamente combattuto a 
                            Ravenna e che vi sia stato anzi gravemente ferito, 
                            è confermato da una cronaca del nobile veneziano Marin 
                            Sanudo che nei suoi celebri diari, dove per quasi 
                            quarant'anni registrò i fatti più salienti del suo 
                            tempo, a quell'anno e in quel mese annotò che il nobile 
                            capitano Fieramosca da Capua, reduce dalla battaglia 
                            di Ravenna, dove era stato ferito, per conto della 
                            Signoria era stato visitato da Andrea Arimondo Savio, 
                            uno dei più noti dottori di Venezia; quindi ospitato, 
                            per il tempo della convalescenza, dalla nobile famiglia 
                            spagnola dei Bessalù, alla quale era stato raccomandato. 
                            Dopo la guarigione raggiunse Ancona, dove si sarebbe 
                            messo al servizio del vicerè di Napoli, Raimondo de 
                            Cardona. Da questo momento in poi ne perdiamo le tracce, 
                            salvo che per un invito che avrebbe ricevuto da Re 
                            Ferdinando, a cui forse doveva rimordere la coscienza 
                            per il modo in cui aveva trattato quel suo nobile 
                            cavaliere. Giunto a Valladolid, dove in quel tempo 
                            i sovrani tenevano la corte, ammalatosi gravemente, 
                            qui la morte lo colse il 20 gennaio del 1515. Aveva 
                            solo 39 anni. Il suo corpo fu sepolto in una chiesa 
                            della piccola cittadina iberica, con una iscrizione 
                            che avrebbe paragonato il nostro eroe all'Ettore troiano, 
                            unitamente al rammarico che fosse morto di una banale 
                            malattia, anziché su un glorioso campo di battaglia. 
                            Ma nel 1844, quando la sua città ne reclamò le spoglie, 
                            esse non furono più ritrovate. Era passato troppo 
                            tempo perché si potesse risalire al nome della chiesa, 
                            all'iscrizione sulla lapide o al ritrovamento del 
                            corpo dell'eroe capuano. Per quanto riguarda le fonti documentali dalle quali 
                            attingere notizie sulla vita del Fieramosca, sono 
                            numerose anche se non sempre attendibili, per cui 
                            vanno prese con beneficio d'inventario. Di sicuro, 
                            dei suoi cimeli, conserviamo forse l'oggetto più nobile, 
                            la storica spada adoperata durante la Disfida, ma 
                            anche sui numerosi campi di battaglia che calcò nella 
                            sua intensa vita di capitano di ventura. Sulla pesante 
                            lama, che attira sempre l'ammirata attenzione dei 
                            visitatori, vi sono incise le parole: Hector Ferramosca 
                            de Capua. La sua firma autografa, resa con scrittura 
                            elaborata ma nitida, come s'usava al tempo, è riportata 
                            in un diploma del 9 novembre 1509, conservato nell'archivio 
                            dei benedettini di Cava.   |