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LA DISFIDA SECONDO IL PROCACCI
COME TRASFORMARE UN BANALE EPISODIO IN UN EVENTO


Un danno incalcolabile ha recato alle celebrazioni per il quinto centenario della Disfida il saggio scritto da Raffaele Procacci La disfida di Barletta fra storia e romanzo, edito a cura di Bruno Mondadori. Il danno riviene soprattutto dal fatto che il Procacci, scrivendo il libro nell’imminenza della ricorrenza (è uscito infatti nel 2001), ha orientato molti cattedratici italiani, nonché la grande stampa nazionale (“Corriere della Sera”, “La Repubblica”, “La Stampa” e via dicendo) ad una chiave interpretativa riduttiva, quando non ostentatamente denigratoria, dell’avvenimento (per tutti E. Botti, La Disfida di Barletta, una rissa d’osteria, “Corriere della Sera”, 16 febbraio 2001). Pubblicazione che ha avuto il merito (se così possiamo dire) di riaccendere una animosa disputa e di riproporre un antico dilemma sul valore dell’antica disfida, alimentando accese polemiche ma non ancora - purtroppo - una profonda riflessione sul significato storico dell’avvenimento.
Già nell’ultima di copertina del libro, curata dall’editore, è riportata una sommaria anticipazione dell’impostazione del saggio, nella quale l’autore si chiede come sia stato possibile che un fatterello così modesto, si sia potuto trasformare in un evento storico.
Dicono i libri di storia che il 13 febbraio 1503, in un tratto di campagna tra Andria e Corato, tredici uomini d’arme italiani contro altrettanti francesi si scontrarono con gran furore e coraggio. Gli italiani, guidati da Ettore Fieramosca, vinsero. Questo episodio, col tempo, venne ingigantito e in parte deformato. Alcuni poe-mi cinquecenteschi, e nell’Ottocento Massimo d’Azeglio con il suo romanzo ‘Ettore Fieramosca’, contribuirono a trasformare un episodio in un evento, se non in un simbolo. Oggi Giuliano Procacci si rivolge a quell’episodio con curiosità erudita mettendo in luce le amplificazioni e le strumentalizzazioni di cui la disfida è stata oggetto.
Sarebbe frutto di una
sapiente orchestrazione!
In sostanza, e senza tanti preamboli entrando subito nel merito della questione, tra lo stupìto e lo scandalizzato, il Procacci si chiede come un fatto così banale come la disfida, uno dei tanti certami dell’epoca, si sia potuto trasformare da episodio in evento. E ne attribuisce le cause ad una sapiente orchestra-zione, lasciandoci in verità alquanto perplessi, trovando difficile immaginare una regia condotta non nell’arco di un tempo circoscritto, ma addirittura plurisecolare, attraverso la manipolazione di un apparato bibliografico e artistico che conta centinaia di titoli.
Come si sa, due sono le chiavi di lettura interpretativa della Disfida: la prima che la celebra come il più remoto episodio di una ritrovata italianità, e il secondo che la relega a uno dei tanti certami fra cavalieri mercenari in cerca di soldi e di gloria. Ed è appunto nel solco di questa seconda riduttiva interpretazione che si muove la ricostruzione del Procacci, aggiungendo, agli argomenti detrattivi già noti, un’ulteriore riflessione, ricorrendo paradossalmente alla testimonianza di Jean d’Auton, cioè dell’unico autore francese che si è soffermato a giudicare il certame e il suo esito. Secondo il quale - e come poteva essere diversamente - l’episodio dello scontro favorevole alle armi italiane non sarebbe stato frutto del valore dei nostri cavalieri, ma dell’astuta applicazione di una norma regolamentare che avrebbe messo fuori causa, già alla prima carica, cinque dei tredici cavalieri francesi. Infatti, restando i nostri campioni fermi ai nastri di partenza, i Francesi avrebbero preso tale una frenetica rincorsa, da sopravanzarli oltre la linea di fondo, uscendo in questo modo fuori gara, o insomma - per usare un più comprensibile linguaggio calcistico - finendo in fuorigioco, con la conseguenza di essere espulsi.Lo scetticismo della stampa nazionale
Ora, è vero che il Procacci ne cita correttamente la fonte, ma i mass media che - all’uscita del libro - se ne sono impadroniti, mentre hanno riportato il giudizio negativo, al tempo stesso hanno omesso di riferire un non trascurabile particolare, cioè che la fonte di questo tendenzioso giudizio era un francese, quindi un autore, per la sua nazionalità, per lo meno sospetto e contestato persino dal Muratori che tenero non è con la disfida.
E così, avendo pubblicato il libro proprio alla vigilia delle celebrazioni cinquecentenarie e trovando in queste giornate la sua massima diffusione, il testo ha finito - in concomitanza con l’atmosfera celebrativa dell’evento - col determinare una qual cert’aria di diffuso scetticismo da parte della stampa nazionale sulla nobiltà dell’episodio. Tanto che la prima proposta di emissione di un francobollo celebrativo venne bocciata proprio su parere negativo di uno dei suoi più autorevoli componenti, il Procacci appunto. Il quale non si mostra molto indulgente neppure col romanzo del d’Azeglio del quale, anziché l’aspetto patriottico-risorgimentale, preferisce evidenziare quello romantico. Secondo il Procacci, infatti, il romanzo è innanzitutto la storia di un amore infelice fra un innamorato taciturno e melanconico, che giunge al punto di suicidarsi dopo aver appreso della morte della donna amata. Insomma un feuilleton in piena regola.
Per il resto - a parte qualche trascurabile inesattezza (ci ritorneremo sul prossimo numero della rivista) - il libro è ben scritto. Schematico e conciso, ancorché dettagliato nelle citazioni, riesce a sottrarsi al rischio dell’aridità dei testi inventariati, con una molteplicità di riferimenti bibliografici, ai quali le fornitissime biblioteche dell’Università “La Sapienza” di Roma, ma soprattutto della “Sorbona” di Parigi, hanno dato il loro cospicuo contributo.
Quanto poi all’esplorazione delle sue fonti, il Procacci non è poi stato molto generoso nella scelta dei suoi referenti storici locali, limitandosi a citare insistentemente solo mons. Giuseppe Damato, non mancando occasione per mortificarne l’attendibilità storiografica e ignorando invece del tutto altri autori che ben altro peso avrebbero avuto nella sua articolata rassegna, come Sabino Loffredo che alla Disfida, ai suoi retroscena, al suo svolgimento e alle sue conseguenze, dedica un intero capitolo. La parola alla storia
Se la sentenziosità accademica ci ha già bollato, la stampa nazionale ci aspetta al varco della ripresa settembrina per darci il colpo di grazia. Forse è venuto il tempo di reagire per evitare il rischio che - storiograficamente - la disfida, nell’anno del suo cinquecentenario, anziché per la sua definitiva consacrazione, sia ricordata per il suo amaro declino. Il rimedio? La parola alla storia. Meglio tardi che mai, forse è tempo di avviare una profonda riflessione sul significato storico dell’avvenimento e sul suo contesto.

Renato Russo (Giugno 2003)

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