| INNOCENTI DISTRAZIONI O TENDENZIOSE OMISSIONI?Va bene che la Disfida è così nota da non aver più bisogno
          di referenze, ma forse
 qualche puntalizzazione non guasta, verso chi discettando ex cathedra,
          vorrebbe
 compiere opera demistificatoria. No, sindaco, non ci pare giusto far
          finta di nulla.
 
 
 Va bene che la Disfida non ha più bisogno di referenze, ai fini
          dell’immaginario collettivo e popolare, ma al termine del Cinquecentenario,
          per la storiografia ufficiale, quale chiave di interpretazione resterà dell’evento?
          Quella della banale rissa d’osteria oppure di uno dei più significativi
          episodi dell’inizio del riscatto nazionale rinascimentale?
 Nell’ultimo numero della rivista, ci siamo occupati del libro
          scritto un paio d’anni fa da Giuliano Procacci sulla Disfida
          di Barletta. L’autore, dopo essersi soffermato sulla storia e
          su alcuni dei testi più rappresentativi che ne hanno ricordato
          le principali tappe storico-letterarie (con particolare attenzione
          agli autori coevi e ai letterati del Cinquecento) passava all’analisi
          del romanzo d’azegliano e quindi ritornava sulla storia della
          storiografia dell’evento, portandoci fino ai giorni nostri, con
          brusca virata focalizzando l’episodio dell’eccidio di Barletta.
 Ma tornando sul principale oggetto del suo breve ma dissacrante studio,
          ci premeva qui sottolineare come ci abbia particolarmente mortificato
          il suo riferimento alla nostra storiografia locale, ch’egli riduce
          all’unica citazione degli scritti di mons. Giuseppe Damato (invero
          più d’ispirazione patriottica che scientifica), ignorando
          deliberatamente l’approfondito capitolo che Sabino Loffredo dedica
          alla Disfida all’inizio del suo secondo volume sulla Storia della
          città di Barletta.
 Delle due l’una, o Procacci ha deliberatamente ignorato il Loffredo,
          il nostro massimo storico locale (e ci pare mancanza gravissima e imperdonabile)
          oppure, pur conoscendolo, ha preferito deviare su un percorso minore
          col deliberato proposito di fare di don Peppuccio il capro espiatorio
          delle sue dissacranti valutazioni sottolineando come non porta lontano
          il campanilismo locale.
 Insomma limitare la difesa storiografica della disfida all’evocazione
          di un autore appassionato ma storicamente approssimativo ed emotivamente
          coinvolto dagli eventi, ci è parsa una cattiveria gratuita anche
          perché - come dice il nostro sindaco (e qui gli do ragione)
          - la Disfida non ha bisogno di difensori né può tener
          gran conto dei detrattori, tanto ormai s’è consolidata
          la sua fama. Questo è vero, ma fino ad un certo punto, perché la
          nostra cultura storica italiana da sempre è del tutto subordinata
          agli ipse dixit dei nostri accademici. Così, basta che un cattedratico
          sentenzia che la Disfida è una rissa da osteria fra 26 ubriaconi,
          eccoti cento testate giornalistiche pronte a dare il massimo risalto
          alla grossolana definizione. Per cui, caro sindaco, non mi par giusto
          - soprattutto in prossimità della ripresa delle manifestazioni
          celebrative del V Centenario - far finta di nulla e tirare innanzi.
 Ma nel nostro caso è peggio. Un autore di caratura nazionale,
          il Procacci appunto, afferma che la disfida è frutto di una
          sapiente orchestrazione, e purtroppo non solo tutta la stampa nazionale
          che conta ha ripreso l’ingenerosa definizione, quanto molti illustri
          accademici suoi colleghi, senza alcun serio tentativo d’approfondimento,
          sono scesi in campo lanciando anch’essi giudizi affrettati, il
          fiorentino Franco Cardini che, in un articolo a tutta pagina dell’“Avvenire”,
          auspica - dopo aver letto Procacci - una rapida azione demistificatoria
          del piccolo, modesto, trascurabile avvenimento.
 Che lo studioso romano abbia voluto compiere opera demistificatoria,
          possiamo anche capirlo, ma con almeno due puntualizzazioni. La prima è ch’egli
          si riferisce particolarmente alla versione di un autore francese, l’unico
          di un certo spessore, che qualche secolo fa si soffermò sulla
          Disfida, assegnando la vittoria ai nostri non per italico valore (come
          dice il Guicciardini) ma per furbizia, cioè per l’applicazione
          regolamentare di una regola secondo la quale essi avrebbero messo in
          fuori gioco (come diremmo oggi in linguaggio calcistico) i campioni
          avversari. Ora i giornali che hanno ripreso la versione, mentre hanno
          rimarcato questa circostanza, hanno dimenticato di precisare (come
          invero il Procacci fa) che la fonte della improbabile versione è… un
          francese, cioè almeno sospetta sulla attendibilità della
          notizia, che peraltro non ha mai trovato alcun riscontro in autori
          coevi dell’evento.
 In secondo luogo, quanto al suo “approfondito studio”,
          qualche pecca, qua e là non manca. Certo non stravolge il senso
          generale del pamphlet ma tradisce una certa frettolosità dell’autore.
 1) Introducendo il suo studio, al primo capitolo, lo storico parla di due battaglie
di Seminara, giugno e dicembre 1502, entrambe sfavorevoli alle armi spagnole,
mentre le battaglie di Seminara sono tre: giugno 1495, novembre 1502, aprile
1503, le prime due vinte dai Francesi e la terza dagli Spagnoli, otto giorni
prima che ribadissero la loro superiorità a Cerignola. (pag. 1)
 2)	Quando, nel citare Machiavelli, omette proprio la parola “duelli”,
il momento cruciale del riferimento alla Disfida di Barletta, è proprio
una innocente distrazione o una tendenziosa omissione? (pag. 17)
 3) Il poema in volgare attribuito a Vincenzo del Balzo, sarebbe stato attribuito
a Battista Damiano. Vuol dire Gian Battista Damiani? Ma il notaio capuano è solo
lo scaltro ma autorevole seppur anonimo autore del proemio alla prima edizione
del 1547! (pag. 27 nota 31)
 4)	Parlando della seconda edizione dell’Anonimo Autore di veduta, ne annota
le 33 pagine di cui si compone il testo. In realtà quest’edizione
(Scoriggio 1633) di pagine ne aveva 78 mentre di 33 pagine è la quinta
edizione, del 1844, per i tipi di Porcelli, stampato su istanza di Giovanni Jatta.
Nel merito poi, quel riferimento alla Madonna dell’Assunta portata in processione,
non è vero che sia stato interpolato nelle edizioni successive, perché è invece
presente fin dalla prima edizione Sultzbach del 1547, ultima pagina. Del resto
non deve sorprendere, perché l’autore non fa mai nessun riferimento
a questa edizione, anche se è la più importante di tutte, perché in
realtà è la prima originaria versione dell’Anonimo Autore
di veduta. (pag. 37)
 5) Cita ben 14 volte Giuseppe Damato, storico locale di modeste risorse storiografiche,
e omette di citare il più documentato storico locale sulla Disfida, cioè Sabino
Loffredo. (da pag. 64 a pag. 97)
 6)	Menziona il grande Giovanni Bovio, di cui ricorre quest’anno il centenario
della nascita, originario di Spinazzola e non di Trani. (pag. 68)
 7)	Fa murare la lapide bronzea del Centenario, con l’indicazione dei tredici
campioni italiani, sull’abside della Cattedrale, anziché sull’abside
esterna del Santo Sepolcro, attualmente collocata su un monumento in piazzetta
della Sfida. (pag. 75)
 8) Un anno dopo, il 13 febbraio del 1937, nella ricorrenza del Centenario. In
realtà il 1937 si celebrò il 434° anno della Disfida, mentre
era l’anno primo dell’Impero (pag. 96)
 9)	Nell’indice dei nomi, come interpretare la citazione De Choque Charles
signore di La Motte? L’autore lo cita 11 volte come signor de La Motte
e una sola volta (pag. 96) come Guy de La Motte. Il quale è ricordato
dalla generalità delle cronache come Charles de Torgues monsieur de La
Motte, ma mai come De Choque (in questo modo è menzionato solo da Pietro
Gasparrini in Charles de Choques, signor della Motta, des noyers, governatore
e senatore di Roma nel 1527), che però il Procacci mostra di ignorare
nel suo pur dovizioso inventario. (pag. 112)
 Prima di chiudere, un’ultima considerazione. Il Procacci non fa mistero,
nella sua esposizione, di nutrire poca simpatia per gli storici locali, e questo
a prescindere dal fatto ch’egli ometta clamorosamente la citazione del
nostro grande Loffredo a beneficio del più modesto Damato, a proposito
del quale va puntualizzato che - modesto storiografo - egli è tuttavia
un gigante di dinamismo rievocativo, tant’è che si deve in buona
parte a lui l’iniziativa della celebrazione dell’evento in forma
di spettacolarizzazione rievocativa e dopo di lui nulla più di originalmente
nuovo è stato pensato e realizzato.
 Ma tornando al Procacci e alla sua generalizzata disistima per gli autori locali,
vale appena la pena di ricordare come la più grande scuola storiografica
del mondo, quella francese degli Annales, parta proprio dalla riconsiderazione
radicale delle storie locali, attraverso le quali solo si può giungere
alla grande storia universale.
 Per non dire del Croce che ebbe a dire: se mai sarò ricordato da qualche
biografia, mi piacerebbe esserlo come autore di storia locale. Bellissimo, non
vi pare?
 E un’ultima notazione. Quando, il 29 febbraio del 2002 (sì, effettivamente
era un anno bisestile) il prof. Procacci venne a Barletta con la moglie e nel
corso di una conversazione nella sacrestia della chiesa di S. Antonio espose
i suoi convincimenti sulla reale portata della Disfida, ricordo distintamente,
all’uscita, di aver sentito due professoresse di storia convenire sul fatto
che, venendone così fortemente ridimensionato l’episodio, non valeva
poi tanto la pena dedicare tempo e dedizione ad un progetto scolastico di approfondimento
dell’evento nella propria scuola e che tanto valeva dirottare l’interesse
su altro argomento…
 Ora, voi immaginate che se questo è l’effetto conseguito dal Procacci
fra i nostri docenti barlettani, quale tipo di sensibilizzazione possa colpire
la generalità di quei lettori che, in Italia, quest’anno, avranno
letto un gran numero di articoli di giornali (delle più grandi testate
nazionali) molti dei quali irridenti, del nostro fatto d’arme.
 Ed ecco perché, caro sindaco, non ci pare sia giusto far finta di nulla,
cullandosi solo sulla consolidata fama di cui è circondata la celebre
sfida, perché celebre resterà in ogni caso, convengo con lei, ma
bisogna vedere se nel ricordo della gente come un gran -bell’-avvenimento
che anticipò i tempi della rinascita di un’italianità dimenticata,
oppure una banale rissa d’osteria fra 26 cavalieri di ventura a caccia
di fortuna.
 Renato Russo (Agosto 2003) << vai all'indice
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