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RICORDO DI MAURO DE CEGLIE
UNO DEI GRANDI TALENTI DELLA NOSTRA PITTURA


Parlare di Mauro De Ceglie, in una città che lo ha visto presente-assente, in una comunità che, forse, solo ora che sono passati cinque lustri dalla sua scomparsa, può imparare ad amarlo, è impresa piuttosto difficile, ma anche doverosa.
Di lui, nato a Barletta il 18 novembre 1908 e deceduto a Milano il 20 ottobre 1981, ricordo appena la sagoma, la sua particolare fisionomia, più ricostruita con l’ausilio di qualche fotografia che per un’assuefazione ben marcata nella memoria. A sua sorella Ida, a sua figlia Anna, al cugino Raffaele devo molto per le scarne e secche notizie biografiche che si perdono al di là del cancello della Casa della Divina Provvidenza di Bisceglie, la casa di cura in cui Mauro passò lunghi anni della sua vita; ai pochi e rari amici, la ricchezza e la vivicità di alcune testimonianze.
Nato in una famiglia modesta, fu ben presto costretto ad emigrare in cerca di lavoro al nord: aveva sedici anni, in effetti, quando partì per Milano. Gli anni milanesi, anche se difficili da ricostruire, certamente furono anni di seria e ottima acculturazione pittorica, di lavoro sodo, se si vuole credere a quanto fu scritto sul quotidiano “La Tribuna” del 4 agosto 1938, in un articolo di cronaca dal titolo “La Mostra personale del pittore Mauro De Ceglie a Barletta”, che riporto per intero.
Questa riuscitissima Mostra, a cui la locale Sezione della Regia Deputazione di Storia Patria per le Puglie ha dato tutto il suo autorevole appoggio, si chiuderà fra giorni. Il giovane artista, non molto noto ai suoi concittadini, perché vissuto quasi sempre a Milano, ha meritato le più sincere e lusinghiere lodi.
Ammirati soprattutto i paesaggi di soggetto locale: lembi della nostra piana soleggiata, ruderi di antichi santuari, case rustiche con contadini in costume paesano, piccoli recessi freschi e verdi, strade campestri polverose attraversate dai caratteristici traini sotto un sole accecante, tratti della spiaggia col multiforme e variopinto mondo dei bagnanti…

Una spontaneità di linee, una freschezza di colore che dà alle cose un senso di gaiezza e di vita. L’artista è fedele al vero, ma questa fedeltà non esclude una certa fantasia interpretativa.
La folla si è fermata con evidente compiacenza davanti agli interni della Cantina della Sfida, dalle tinte calde e neutre, rotte da uno squarcio di cielo azzurro occhieggiante fra le sbarre d’una grata, o dalla luce discreta di un finestrino. Non possiamo non dire una parola su alcune teste modellate con plasticità e che ricordano la maniera del Ranzoni, su Castel del Monte, superstite monumento di un’architettura di forza e di grazia, su alcune verdi e riposanti ville, un cantiere pulsante e strade cittadine.
L’autore che non ha ancora trent’anni e già tanto cammino ha percorso, saprà fare sempre più onore alla città che dette i natali a De Nittis
”.
L’entusiasmo e la competenza del cronista ci aiutano a delinea-re la statura del pittore che è definito artista fedele al vero ma non scevro di una certa fantasia interpretativa, quel tanto, insomma, di libertà creativa che basta, ad un serio professionista, per assicurarsi una propria autonomia ed una specifica identità. È quello che Mauro De Ceglie è riuscito a fare sino alle sue ultime produzioni, nonostante l’evidente stanchezza e le più volte dichiarate difficoltà.
I temi specifici delle sue opere che, nell’articolo de “La Tribuna” sono egregiamente sintetizzati, rispecchiano una cultura tutta provinciale, chiusa forse, saldamente legata alla tradizione del proprio paese, del territorio che si vuole celebrare, ma mai stantia, ferma, ripetitiva o, peggio, imitativa. Così la ricchezza e la vivacità di quella pagina storica che è la Disfida di Barletta, rivivono nella sobria ed elegante architettura della Cantina della Sfida piuttosto che nella ricostruzione fantasiosa del campo del torneo d’armi: è una maniera più umile, se si vuole, meno spettacolare, comunque, di rendere omaggio alle proprie origini, ma certamente più vera ed efficace. Quella stessa verità ed efficacia che si leggono nei paesaggi, nella fedele ricostruzione dei trulli o dei pagliai delle nostre campagne, delle stesse secolari piante degli ulivi o nei ruderi di qualche masseria. Nella più ampia tradizione denittisiana, De Ceglie, è stato un pittore “en plain air”, un artista che ha saputo osservare il mondo circostante e lo ha voluto ritrarre, quasi fermarlo, per invitare a gustarlo maggiormente.
Di lui si narra che dipingesse quasi estasiato e che, dopo aver osservato una immagine che più lo interessava, socchiudeva gli occhi quasi a volerla ridefinire prima ancora di fissarla sulla tela. Gli anni, della sua più ricca produzione sono quelli intorno al ‘40: De Ceglie fissava su piccole tavolette i paesaggi che maggiormente lo interessavano e, poi, li ampliava fornendo materiale di lavoro anche ai giovani che lo attorniavano o per apprendere i primi rudimenti della pittura o per perfezionarsi in una tecnica già appresa. Ruotava intorno al pittore, infatti, un gruppo più o meno stabile: Raffaele Iorio, Maria De Vita, Maria Picardi Coliac, Ruggiero Pignatelli, Rino Dadamo e anche qualche altro. De Ceglie non si dava mai arie di maestro; dai suoi viaggi a Firenze, in particolare, riportava sempre i suoi bozzetti che costituivano ricco materiale didattico.
Nelle collezioni private che mi è stato dato di vedere, ho ritrovato paesaggi abruzzesi, campagne pugliesi, tipici fiori nostrani, finemente evidenziati nella loro naturale bellezza coniugata mirabilmente con la linearità e la cristallina trasparenza dei vasi di supporto. La natura morta nella pittura di De Ceglie, si accende di una vitalità intrinseca che la rende piacevole e fortemente plastica ad un tempo, sia che raffiguri strumenti della quotidianità, sia che riproponga mezzi di prima necessità per la vita stessa dell’uomo. Ma il “tipico” nella sua pittura è rappresentato dal trullo o pagliaio della nostra campagna: ricorre in più opere a tal punto da far supporre un che di simbolico nella sua stessa struttura.
Al di là dell’impostazione architettonica, a mezza strada tra il “tucul” africano e il “nurago” sardo, il trullo pugliese rappresenta, nella nostra cultura, qualcosa di legato al senso di sicurezza, in una situazione ambientale e paesaggistica piana e desolata. Il contadino vi si rifugia per sottrarsi alla calura o alle intemperie, per riposarvisi nelle sue stagionali emigrazioni che vive più come una necessaria e inesorabile fatica che come naturale rapporto con la sua produzione, per depositarvi i piccoli attrezzi del suo mestiere o il superfluo dei suoi raccolti e le sementi per la nuova produzione. Il “trullo” di De Ceglie sembra sintetizzare tutto ciò e, a volte, è anche qualcosa di più, qualcosa di architettonico finemente primitivo, linearmente aderente alla realtà e finanche con un pizzico di indicazioni surreali, più accennate che esplicitamente o intenzionalmente eseguite. Più che leggersi, si indovinano.
C’è, infine, un interesse per l’immagine, nella produzione di De Ceglie, che va dal ritratto della Mamma, della sorella Ida e della figlia Anna fino al suo autoritratto. Semplice e lineare, la figura rivive di una forza interiore e di una sua vitalità che l’artista riesce a sintetizzare o nel cromatismo soppesato di alcuni particolari o in una equilibrata sintesi dei particolari stessi. Preciso e immediato nella comunicazione di quanto vuole esprimere, De Ceglie realizza una pittura calda, ricca e piacevole senza mai scadere nel futile e nel lezioso.

Luigi Di Cuonzo (febbraio 2007)

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