| Fede, Storia, Arte e CulturaRiflessioni sul senso delle parole a due anni dalla morte di don  Gino Spadaro
 L’8 agosto scorso nella Cattedrale di  Santa Maria Maggiore a Barletta si è celebrata la Santa Messa Solenne  per commemorare il secondo anniversario di morte di don Gino Spadaro, Parroco  di Sant’Andrea per un ventennio, spentosi nell’agosto 2006 dopo una lunga  malattia. Potrebbe cominciare così quest’intervento richiestomi dagli amici del  Fieramosca per ricordare mio zio Gino. Forse è però il caso di rompere gli  schemi della ufficialità e provare a parlare di lui diversamente.Chi era don Gino Spadaro? A due anni  di distanza lo chiedono ancora in tanti, così come in tanti ce lo ricordano:  era il Sacerdote, l’uomo che amava il suo quartiere di Santa Maria; era il  ministro dei poveri e dei ricchi; era un pastore di giovani, quanti giovani,  che nel corso degli anni si sono avvicendati l’uno dopo l’altro nella  parrocchia e con la fede sono cresciuti e sono divenuti padri di famiglia. Era  un sacerdote che amava il suo sacerdozio, la Chiesa, e più di tutti amava il Signore e Maria,  Sua madre.
 Ma, come ho già detto in Cattedrale  la sera dell’anniversario, mio zio Gino era molto di più. Ho letto sulle pagine  del Fieramosca di qualche tempo fa un riferimento a mio zio fatto da Cinzia  Dicorato, così come prima di lei, sulle pagine della Gazzetta a riprendere in  mano il ricordo di mio zio furono Carmine Dipaola e Francesco Messina, cari  amici. Quei riferimenti, inseriti in un contesto di analisi sulla nostra città e  su quanto sta avvenendo negli ultimi tempi, volevano significare il richiamare  le coscienze della nostra Barletta ad una presa di responsabilità, anzi, una  assunzione di responsabilità sulle spalle di quanti credono nella crescita  civile e culturale della nostra città attraverso l’estensione della mente. Sì  perché, come sanno tutti coloro che sono passati attraverso le parole,  l’amicizia, l’ufficio pastorale di don Gino Spadaro, il nostro passaggio  terreno è e deve essere prima di tutto un impegno nella ricerca di un  miglioramento, attraverso le varie forme del pensiero. Ma, se può apparire  strumentale talvolta richiamare il ricordo di mio zio per sostenere posizioni e  pensieri, voglio ricordare che quella ricerca passava forzatamente (e direi  naturalmente) attraverso un’unica Parola, quella della Scrittura, e un unico  testimone, Cristo. Tutto il resto è sempre stato conseguenziale, mai  strumentale.
 Anche quest’anno è uscito, in  concomitanza con il secondo anniversario della sua morte, un piccolo librettino  in cui sono stati pubblicati alcuni pensieri e lettere scritti da don Gino  durante la malattia e consegnati alla Parrocchia di Sant’Andrea nei momenti più  solenni del calendario liturgico. Il titolo, In manus tuas. Il Ministero del Pastore lontano dal suo gregge: lettere  e riflessioni di don Gino Spadaro, Parroco di Sant’Andrea (Anni 2002-2006),  nasconde dei pezzi di emozionante dedica alla vita e alla fede e, nello stesso  tempo, prova a dare una risposta a domande difficili, quale quella del senso  della malattia, della necessità della morte, del rapporto con la fede nei  momenti di difficoltà. Ma non c’è solo questo.
 L’intento della pubblicazione degli  scritti di mio zio, lascito prezioso fatto in sede testamentaria a don Vito  Carpentiere e don Angelo Dipasquale e da essi a me consegnati in custodia,  nasconde anch’esso un intento di assunzione di responsabilità. Prima di tutto  quella della memoria di don Gino Spadaro, che non può e non deve essere  lasciata solamente al ricordo personale perché, come già dissi in Cattedrale,  sarebbe un tradirne lo spirito e l’insegnamento di una vita. Ma, in secondo  luogo, perché noi famiglia, la   Chiesa barlettana e il suo erede pastorale, don Pino  Paolillo, e alcuni degli amici più cari, intendiamo proseguire nelle “cose che mio  zio faceva” in vita. E se alla Chiesa barlettana spetta continuarne la  pastorale e l’insegnamento di fede, a noi, laici, più semplicemente resta il  compito di provare a tracciarne l’eredità attraverso le opere di misericordia o  quelle di “responsabilità civile e culturale”, come già da alcuni ricordato.
 Mio zio Gino ha amato Barletta in  modo viscerale. L’ha amata nelle persone. Ma soprattutto è restato convinto  sino alla fine che le persone andassero educate alla città. Tale educazione non  poteva non passare attraverso la conoscenza della storia, dell’arte e delle  tradizioni che in questo luogo stupendo si sono addensate in secoli di vite  vissute e successe le une alle altre. Il patrimonio culturale che Barletta  conserva è oggi uno dei più importanti di Puglia e dell’intero Mediterraneo e  la convinzione di mio zio risiedeva nel fatto che solo attraverso un’educazione  meditata, seria, convincente e mai banale alla cultura e alla storia della  propria città si potesse migliorarne la qualità della vita. È un insegnamento  che mi ha lasciato, forte e direi testardo, sino a rischiare di ulcerare la  propria volontà per la missione dichiarata. Con la Rotas, nel corso degli anni,  molte sono state le iniziative in tal senso; per prima la collana de Il Genio della mia terra, che è e  resterà un patrimonio gigantesco per la conoscenza di quanto la storia ha  consegnato ai barlettani. Ma insieme ad essa l’intero patrimonio di mostre, di  lezioni sull’iconografia (Parola che si fa Scrittura), di seminari, di corsi di  perfezionamento musicale, di arricchimento e tutela del patrimonio culturale  diocesano, dai restauri di chiese e di paramenti sino a quelli di legni,  organi, tele e tavole dipinte. Tutto ciò mai in solitudine ma sempre  accompagnato dalla comunità parrocchiale e dal potente sostegno del Signore.
 È dunque sembrato naturale,  quest’anno, destinare l’intero ricavato delle offerte raccolte in cambio del  volumetto In manus tuas al restauro  della chiesa di Sant’Andrea: la sua chiesa, quella che ha amato come si ama una  moglie e che chiamava sposa. Oggi quel restauro è stato avviato dolorosamente,  per quanti lo hanno atteso a lungo, senza don Gino Spadaro al timone. Quel  restauro necessita ancora di sovvenzioni, di forze e di interessamenti a  sostenerlo perché, in quella chiesa francescana è scritta parte della storia  della città in età Moderna.
 Nel presentare questo bel volumetto  di riflessioni, inserito in una collana avviata l’anno passato e intitolata  “Frammenti dalla Deisis”, ci tengo a ribadire questi concetti ricordando che la  memoria di mio zio non può e non deve essere “gettata in piazza” ma, così come  lui era abituato a pensare e fare, deve essere sempre sostenuta dalla fede e  con un fine: terreno e materiale, forse, perché è quanto noi, poveri orfani di  padre, siamo ora in grado di fare; ma sempre meditato e spinto ad un unico  scopo. Quale? Quello della conoscenza e dell’amore per la propria terra; della  ricerca della bellezza perché, come lui stesso ha scritto, in quel kalòs,  termine greco che significa bello, “bellezza e bontà convivono” nell’unico  riconoscimento nel Signore.
 Victor  Rivera Magos (settembre
              2008)
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