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VALDEMARO VECCHI E BARLETTA
Precursore dei tempi moderni, pioniere dell’editoria barlettana e pugliese, ricordato a Trani, dove trascorse trent’anni della sua vita, a 100 anni dalla morte ignorato ancora dalla nostra città

Ricorre in questi giorni il centenario della morte di Valdemaro Vecchi (8 febbraio 1906-8 febbraio 2006), e la città di Trani lo ricorda con una documentatissima mostra organizzata dalla associazione Traninostra e Tranitradizioni nel prestigioso palazzo Palmieri, nei pressi del porto. Dimenticato invece da Barletta, anche se il Vecchi, originario di Fidenza (Parma) prima di trasferirsi a Trani, passò i primi dodici anni della sua vita professionale proprio nella nostra città (1869-1880).
Ma vediamo come cominciò la sua avventura barlettana, affidandone il racconto a lui stesso, in una rara pagina autobiografica che abbiamo preso da una numero unico di Pietas (l’organo di stampa della Croce Rossa Italiana) del 1892.
Giovane d’anni [Vecchi aveva 28 anni quando giunse a Barletta il 30 dicembre 1868], di florida salute e pieno di buon volere, io sfidava l’avvenire, e recandomi in una città ove non avevo competitori nell’arte mia, mi sorrideva la speranza di poterlo sfidare vittoriosamente.
Ma tratto tratto un senso di tristezza s’impossessava del mio spirito e mi pareva soverchio ardimento l’aver lasciato una modesta ma sicura posizione per andare incontro all’ignoto, in una città lontana, ove forse mi aspettavano le più amare delusioni. Ed è purtroppo vero che allora gl’Italiani si conoscevano assai poco tra loro e non era raro il caso di trovare nell’Italia Superiore, anche fra persone non idiote, chi non sapeva dove fosse posta Barletta, e viceversa nel Mezzogiorno chi ignorasse l’esistenza d’una anche non piccola città centrale o settentrionale d’Italia.
In verità, io non ero in questa condizione. Il nome e l’importanza storica e commerciale di Barletta non mi erano ignoti, e, appunto per la sua importanza storica e per il suo nome glorioso, Barletta mi attraeva, tanto che bastò il consiglio di un amico che mi eccitava a portarvi la mia industria, perché io mi vi recassi ad occhi chiusi, senza tanto pensarci su, ma in quelle ore della notte, mentre il treno camminava e camminava, mi pareva che la lontananza diventasse enormemente più grande di quella che realmente era e l’abbandono dei luoghi della mia infanzia, della mia prima giovinezza, e il ricordo dei parenti e degli amici che avevo lasciato, e la solitudine in cui mi trovavo mi davano qualche momento di vera e profonda malinconia.
Ma poi pensavo che, infine, malgrado la lontananza, io ero sempre in terra italiana, e che in qualunque angolo uno si trovi della propria Nazione può dirsi in casa propria, e mi allietavo e mi compiacevo del fatto che da un decennio le barriere che dividevano Italiani da Italiani erano infrante e la Patria era unificata e grande.
Erano le sette antimeridiane quando smontavo tutto solo alla stazione di Barletta, stazione allora piccola e che, almeno nella mente di chi l’aveva costruita, doveva essere di ben poca importanza. Il tempo ha smentito questa credenza. Il cielo, questo splendido cielo meridionale, era d’un grigio cupo quella mattina, e ciò accresceva il mio malumore nostalgico. I cittadini erano ancora immersi nel sonno, e quelle case senza tetto mi davano l’idea di una città distrutta.
Vicino alla stazione uno spiazzo di terreno erbifero, nel mezzo una capanna, quasi diroccata, e poi lungo l’entrata principale della città delle catapecchie. Dopo aver preso stanza ad un albergo che si chiamava, se ben ricordo, ‘Parigi’, mi diedi a visitare la città. La parete antica mi ricondusse col pensiero ai tempi della Disfida, e la trovai quale me l’ero immaginata, e quale l’avevo letta descritta nei libri. Anche il popolino che si inginocchiava per strada la sera al suono dell’Avemaria, era proprio ancora quello descritto da Massimo d’Azeglio, popolo buono, rispettoso, sobrio quant’altro mai.
La parte moderna non presentava nulla di notevole, ma in quel che c’era di notevole, il brutto predominava. Tranne due o tre belle contrade, tutte le altre erano senza basolato e sporche, e si camminava nel fango e nelle immondizie, rigagnoli di acqua, che non era di fontana, scorrevano per tutta la città, il che non doveva giovare alla pubblica salute. L’illuminazione era ancora ad olio, con quei fanali preistorici sporgenti agli angoli delle contrade, ed in piccolo numero, sicché la sera la città era tetra e pressoché al buio. Francamente tutto questo mi fece una pessima impressione, e mi venne una gran voglia di ritornare donde ero venuto.


* * *

Ma dopo un momentaneo moto di sconforto, ripensando alla sua città natale che s’era lasciato alle spalle, il Vecchi si riprese subito, e già l’indomani incontrò il nostro studioso e storico locale Francesco Saverio Vista. S’erano resi liberi dei locali nell’ex convento di S. Domenico (che agli inizi del Novecento ospiterà il Museo Civico) che il nostro Valdemaro occuperà a titolo gratuito fino al 1880, quando decise di trasferirsi a Trani.
Su suggerimento del Vista, a quel tempo assessore comunale, e studioso di preclare qualità, il Vecchi chiamerà la sua stamperia Tipografia Municipale, quasi a voler sottolineare la disponibilità ad una intensa e proficua collaborazione con l’Amministrazione Comunale del tempo. Agli inizi del 1869, il Vecchi costituì una società commerciale con Giuseppe Onesti, Ruggiero Casardi e col canonico Giuseppe Ciccarelli (nel 1870 Casardi sarà sostituito da Luigi Vista e nel 1872 Onesti da Francesco Saverio Vista). Questa società durerà per tutto il tempo che il Vecchi resterà a Barletta e benché non avesse finalità di lucro, quando si sciolse fu in grado di restituire ai soci le loro quote di capitale ed un discreto utile.
Valdemaro Vecchi seppe affrontare subito e risolvere i primi due grossi problemi che gli si paravano contro: la mancanza di manodopera qualificata (alla quale sopperì con grandi sacrifici facendo scendere a Barletta un operaio specializzato) e una qualificata clientela che egli trovò fra i Comuni del Circondario, le Preture, le Opere Pie, le Esattorie Comunali, le ricevitorie del Registro e del Lotto. Pochi invece i clienti privati (come avvocati e notai) e ancor meno le modeste industrie che in quegli anni iniziavano la loro produzione.
Agli inizi della sua attività il Vecchi tenne a battesimo due grandi iniziative, una editoriale, la pubblicazione di un giornale cittadino, e l’altra di valore sociale, cioè la formazione di una Biblioteca Popolare Circolante, inaugurata il 1° gennaio 1870. Organizzata su di un bus, arrivò a contenere fino a 1500 volumi. Gestita dal canonico Giuseppe Ciccarelli, non era tuttavia sostenuta dall’Amministrazione Comunale, che non ne colse l’enorme valore di promozione culturale. Finirà col cessare la sua attività per difficoltà economiche ed organizzative.
L’iniziativa invece più nota, è legata alla nascita del primo giornale cittadino ed uno dei primi in Puglia, “Il Circondario di Barletta” il cui primo numero vide la luce il 2 febbraio del 1871.
È vero che il primo periodico in senso assoluto, era uscito l’anno prima, “Il Fieramosca” settimanale diretto da Benedetto Paolillo, edito per giunta dallo stesso Vecchi; ma erano state tre uscite estemporanee fra l’11 e il 29 settembre del 1870 (riprenderà la pubblicazione sette anni dopo).
“Il Circondario di Barletta” aveva come sottotitolo esplicativo “giornale amministrativo, commerciale, industriale, letterario, scientifico e politico”. Diretto dallo stesso Vecchi, il quindicinale era ispirato a principi liberali moderati, così esplicitati in occasione dell’uscita del primo numero.
Un giornale che faccia storia o almeno cronaca quotidiana del paese dove si pubblica, esponga i fatti e li discuta o provochi su di essi l’attenzione e la discussione dei propri cittadini, e aiuti la coscienza del Comune a formarsi e svilupparsi.
L’impostazione data dallo stesso editore ai suoi redattori, anche famosi o famosissimi come il Croce, era quella di trattare l’argomento in maniera piana e divulgativa, senza peraltro mai rinunciare alla oggettività dell’informazione. Era il taglio breve dell’articolo che prevale sulla misura del saggio e conferisce tono di colta divulgazione alla rivista.
Numerosi gli articoli di interesse storico, sociale, culturale, ma anche archeologico pubblicati nel corso di quegli anni. Fondamentali per la conoscenza delle origini della nostra città gli articoli pubblicati dall’ingegnere capo del comune Francesco Losito su alcuni importantissimi ritrovamenti di antichi sepolcri.

Renato Russo (marzo 2006)

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