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IL RITORNO DEI PUPI
Nel castello di Barletta un piccolo museo, donazione degli eredi della compagnia marionettistica, “don Michele Immesi”

Chi l’avrebbe mai detto? Il teatro dei pupi sembrava ormai morto e sepolto nella fantasia di piccoli e grandi e nella cultura attuale. Invece c’è un rinnovato interesse per questo genere di spettacolo in tutte le parti del mondo.
Dall’India al Giappone, agli Stati Uniti è tutto un rifiorire di studi, di allestimenti, per questi fantocci inanimati, ai quali gli artisti danno voce e vita, tanto da farli sembrare personaggi veri.
Apprendiamo dalla stampa quotidiana che a New York c’è una sezione speciale del MOMA (museo di arte moderna), mentre a Palermo è stato inaugurato il Museo Internazionale delle marionette. Comprende 4000 burattini che vanno dai Paladini dell’opera dei pupi siciliani, agli hun krabok della Tailandia, dai kebe-kebe del Congo alle marionette vietnamite che escono dall’acqua. Sono state raccolte dal chirurgo palermitano Antonio Pasqualino e costituiscono patrimonio dell’Unesco. L’11 novembre scorso c’è stato il Festival Internazionale, che ha avuto notevole successo.
A Barletta abbiamo la fortuna di avere un piccolo museo, situato nella Sala Artificieri del Castello, frutto della donazione degli eredi della Compagnia Marionettistica “Michele Immesi”.
Sono in mostra una ventina di pupi armati di tutto punto, altri in abiti di epoca, più trofei e armi quali corazze, scudi, lance, spade e attrezzi indispensabili per le varie scenografie.
Ma cosa possono rappresentare per le nuove generazioni questi interessanti cimeli?
Il cinema, la televisione, i moderni trucchi computerizzati, i fumetti hanno fatto morire questo genere di spettacolo che ha appassionato piccoli e grandi per circa un secolo. Oggi i nostri figli e nipoti sono attratti da vari personaggi dei cartoons nostrani o giapponesi che non hanno nessuna corrispondenza con la nostra realtà, né tantomeno con la nostra cultura.
Varie generazioni di bambini e adulti si sono appassionati alle vicende dei paladini di Francia, della guerra di Troia, della Disfida di Barletta. Negli anziani non si può cancellare il ricordo dell’infanzia, la nostalgia di un periodo della propria vita indimenticabile.
Ero un appassionato degli spettacoli della Compagnia Immesi. Ricordo ancora il capostipite e fondatore, il cavalier Michele: un bell’uomo, alto, prestante, con una voce da baritono e l’atteggiamento di falso burbero. Poiché non potevo, per la mia giovane età, recarmi da solo, i miei genitori mi affidavano a un amico di famiglia, Nicola Barile, figura tipica: era piccolo di statura, vivace, intelligente, memoria di ferro. Gli volevo bene, perché era l’unico adulto che mi permetteva di chiamarlo per nome e dargli del tu. Era un assiduo cultore del teatro dei pupi, tanto da dare ad alcuni suoi figli i nomi di personaggi a lui cari. Giungevamo in sala con anticipo, perché non c’erano posti numerati e bisognava occupare le prime file. Sapeva tutte le battute a memoria, e nell’attesa mi anticipava gli avvenimenti. Quando a scuola cominciai a studiare l’Iliade o l’Orlando Furioso, io sapevo già tutto, e se qualche episodio di scena non coincideva col testo originale, per me erano Omero o Ariosto che avevano sbagliato e non si erano attenuti a quanto avveniva in teatro. Ma non era tutto: la fantasia mi spingeva a costruire dei pupi in miniatura, con pezzi di legno e stoffe raccolte in famiglia: le teste erano fatte immancabilmente con i tappi delle bottiglie; ovviamente il tutto avveniva con l’attenta supervisione e l’aiuto del caro Nicola. Oggi i giocattoli che riproducono i personaggi dei cartoons televisivi sono destinati ad essere distrutti dopo due giorni. Alla scomparsa di don Michele, l’organizzazione passò nelle abili mani dei suoi figli; don Filippo e don Peppino, compagno di scuola di mio padre.
Nel dopoguerra la tradizione fu raccolta dai nipoti, molto bravi anche loro e benemeriti, per la donazione al Comune, che ha costituito il nerbo del museo.
Oggi i bambini non sanno chi sono questi personaggi esposti in abiti sgargianti nelle loro teche. Non possono immaginare che un tempo si muovevano, parlavano, combattevano, soffrivano e morivano sulla scena, per tornare a rivivere l’indomani, e far vibrare la mente e il cuore degli spettatori.
È un peccato che nessuno spieghi e illustri loro le vicende, mediante i personaggi di legno e ferro, che diventavano di carne e sangue, mercé la bravura e l’arte dei nostri pupari.
Non dovrebbe perdersi la memoria storica di un frammento della nostra vita, del nostro folclore, di un tempo forse più felice, ma sicuramente più semplice, più ingenuo; più immediato, alieno dalle tante brutture, disordini, disagi, che a volte rendono la vita quotidiana sempre più incerta e difficile.

Risco (febbraio 2005)

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