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                UN TEDESCO NELLA “MEMORIA”  A fronte della barbarie nazista più volte denunciata, va anche
            ricordato l’episodio di un ufficiale tedesco che - a prezzo della
            sua vita - salvò quella di cinquanta ostaggi tranesi. Dopo essere
            stato fucilato per insubordinazione, i suoi resti furono sepolti davanti
            al Castello di Barletta. Anche questo episodio, ancora avvolto nella
            nebbia delle tragiche giornate del settembre del ‘43, meriterebbe
            una pagina del capitolo del grande libro dedicato alla Giornata della
            Memoria. In queste due pagine riportiamo due articoli della Gazzetta,
            uno del 19 settembre 1956 firmato da Domenico Pàstina, e l’altro
            del 17 settembre 1977 firmato da Mario Schiralli.Diciotto settembre
            1943, un sabato di trentaquattro anni fa. Nelle prime ore del mattino
            un plotone di soldati nazisti rastrella cinquanta tranesi da fucilare
            per rappresaglia: dieci per ognuno dei cinque tedeschi uccisi due giorni
            prima in una imboscata nei pressi del cimitero: un avamposto canadese
            (le avanguardie alleate erano giunte a Molfetta), coadiuvato da bersaglieri
            ciclisti italiani, aveva sparato contro un camion di tedeschi che trasportava
            birra. La fucilazione dei cinquanta ostaggi, però, non avviene.
            L’intervento del podestà di Trani, Giuseppe Pappolla,
            e dell’arcivescovo, mons. Petronelli, riesce a convincere l’ufficiale
            (era un tenente che mostrava più un’origine austriaca
            che tedesca ricorda il dott. Giuseppe Amorese, all’epoca appena
            sedicenne, che era fra i cinquanta insieme a suo padre) che i tranesi
            sono estranei all’episodio: non avrebbero nè sparato,
            nè tanto meno fatto i delatori. L’ufficiale dimostra
            di crederci e li lascia liberi.Ma la spietatezza e la perentorietà degli ordini di rappresaglia
            impartiti alle truppe hitleriane esigono, comunque, una vittima. E
            questa sarà lo stesso ufficiale tedesco colpevole, per i suoi
            camerati, di una “generosa insubordinazione”. Il nome del
            tenente (era molto giovane e biondo, racconta ancora Giuseppe Amorese),
            tuttavia, è rimasto sempre sconosciuto, malgrado le continue
            ricerche presso l’ambasciatore di Germania a Roma. Di lui e della
            sua morte non vi è stata mai conferma ufficiale, però la
            voce della sua condanna e della sua fucilazione si sparse, subito,
            sin dal giorno dopo e sono in molti a ritenerla attendibile.
 Il ricordo di quel giorno e di quelle terribili ore (circa otto,
            dalle sei del mattino fin quasi alle due del pomeriggio), passate
            in un’aiuola
            della piazza centrale di Trani, l’attuale piazza della Repubblica,
            sdraiati per terra, con la continua paura che l’ordine di fucilarli
            venisse dato da un momento all’altro, è ancora inciso
            nella mente di alcuni ostaggi (dei cinquanta, una decina sono ancora
            in vita). E, proprio attraverso il loro racconto, è possibile
            ricostruire fatti ed episodi di quel sabato di trentaquattro anni
            fa.
 Il rastrellamento fu fatto senza alcuna discriminazione - dice Nicola
            Ricci, ex vigile urbano, allor poco più che trentenne anch’egli
            fra gli ostaggi -. Ricordo che Nicola Cancelli si avvicinò sicuro
            al gruppo per curiosare tanto, disse, ho in tasca la tessera del
            fascio.
 Anch’io mi trovai lì per caso - fa eco Vincenzo Mastromauro,
            gioielliere, oggi 82enne - mi trovavo da quelle parti perché mi
            avevano promesso del formaggio e, a dire il vero, un soldato tedesco
            che conoscevo si era fatto in quattro per farmi capire di cambiare
            strada: ma io non riuscii a comprenderlo. Qualche altro però non è dello
            stesso parere. Da più parti viene confermata la voce secondo
            la quale qualcuno di Trani segnalò ai tedeschi parecchi nomi,
            almeno di quelli che appartenevano a “Giustizia e Libertà” (un
            movimento antifascista che aveva la sua sede nella tipografia Vecchi).
 In poco più di un’ora il numero di cinquanta è raggiunto.
            Ed è a questo punto che uno degli ostaggi riesce a fuggire.
            Fu Nicola Cancelli che sorprendendo tutti - a ricordarlo è Giuseppe
            Amorese - con grandi balzi si dette alla fuga riuscendo a nascondersi
            nel vicolo Fiocco. I tedeschi gli spararono, ma lui ebbe la netta sensazione
            (anche gli altri lo confermano) che non volessero colpirlo. Lo stesso
            Cancelli corre ad avvisare il podestà.
 Lo vedemmo arrivare tutto trafelato e piangente - racconta la signora
            Maria, figlia di Giuseppe Pappolla - scongiurando mio padre di fare
            qualche cosa. Giuseppe Pappolla, benché la moglie tenti di dissuaderlo,
            inforca la bicicletta e va a “parlamentare” con l’ufficiale
            per convincerlo che i tranesi non c’entrano con l’uccisione
            dei suoi camerati. Il tedesco sembra irremovibile e fu allora - dice
            Nicola Ricci - che lo sentii offrirsi come unico responsabile in
            cambio della vita di tutti noi.
 Intanto le ore trascorrono lente mentre la tensione fra gli ostaggi
            aumenta. Ogni tanto - continua Nicola Ricci - qualche soldato si
            avvicinava a terra nell’aiuola, quella a destra dietro il bar, e puntando
            il mitra ci diceva: voi tutti morti, tutti fucilati. Qualcuno nel frattempo
            perse il controllo dei nervi - ricorda Vincenzo Mastromauro - e scoppiò in
            lacrime. Altri invece fumavano nervosamente, altri ancora parlavano
            tra di loro per tranquillizzarsi a vicenda.
 Il podestà continua imperterrito a protestare l’innocenza
            dei tranesi per cui l’ufficiale non potendo controbattere cambia
            atteggiamento e li accusa di aver saccheggiato tre giorni prima un
            camion di viveri. Ma anche questa accusa cade perché Giuseppe
            Pappolla riesce a far riavere ai tedeschi in poco tempo quei viveri
            che non erano stati saccheggiati, bensì distribuiti dagli stessi
            soldati tedeschi alla popolazione. Forse ciò convince l’ufficiale
            tedesco della buona fede dei tranesi, ma gli ostaggi non li rilascia
            ancora. C’è molta confusione quando, verso mezzogiorno,
            dopo ripetuti solleciti da parte di alcune moglie e madri degli ostaggi,
            che stazionavano a qualche centinaio di metri giunge anche mons. Petronelli
            che giura sulla sua croce pettorale l’innocenza dei tranesi,
            ma riesce solo ad ottenere la liberazione di un vecchio sacerdote,
            don Tommaso Maggi, che è tra i cinquanta, e la possibilità di
            impartire agli altri la benedizione.
 Le trattative tra il podestà e l’ufficiale tedesco (si
            servivano di un sergente altoatesino che fungeva da interprete - ricorda
            Amorese) diventano febbrili tanto più che l’ufficiale
            comincia a manifestare palesemente qualche perplessità. Sono
            passate circa otto ore dall’inizio del rastrellamento quando
            arriva l’ordine di lasciare tutti liberi. Non appena tornammo
            a casa a me ed a mio padre fu dato del cognac perché eravamo
            molto pallidi - commenta il dott. Amorese -. Bevvi tutta la bottiglia
            d’un fiato e mi presi una sonora sbornia. Dopo la liberazione
            degli ostaggi, i tedeschi salgono su alcuni automezzi e ritornano a
            Barletta. Cosa sia realmente accaduto all’ufficiale al suo rientro,
            non si sa con certezza. Il giorno dopo - è Nicola Ricci a
            ricordarlo - si sparse la voce che il giovane tenente era stato fucilato
            per insubordinazione.
 L’ufficiale tedesco, di cui non sapremo mai il nome, come scrisse
            in un suo corsivo sulla Gazzetta del 19 settembre 1956 Domenico Pàstina,
            secondo una voce era stato giustiziato per una disobbedienza dettata
            da “gentilezza d’animo”.
 Rievocare questo fatto incruento - dice il giornalista Nicola Pàstina
            che con il fratello Domenico condusse le indagini per scoprire chi
            fosse il “biondo tedesco” - è utilissimo per dimostrare
            come non tutti i nazisti erano le “belve bionde” descritte
            da Giuseppe Marotta. Dimostra invece come un raro, ufficiale hitleriano,
            protagonista di un episodio di umanità, fu poi implacabilmente
            punito per questa sua umanità.
 Mario Schiralli (febbraio 2004) 
 Da approfondimenti successivi, si è saputo che
            quell’ufficiale tedesco era lo Jelo Wehl Willi Wagner. Comandato
            di eseguire la sentenza della fucilazione dei cinquanta ostaggi, dopo
            un colloquio con l’Arcivescovo di Trani mons. Petronelli, che
            si era offerto al posto degli ostaggi, lasciò tutti liberi,
            insubordinazione tanto grave da essere valutata come tradimento e come
            tale punita con la fucilazione. Il giovane ufficiale tedesco sarebbe
            stato così condotto a Barletta l’indomani e fucilato sul
            piazzale del Castello, ai bordi del fossato antistante l’ingresso
            principale e lì, sul posto, scavata una buca, sarebbe stato
            in tutta fretta sepolto. Notizie che il prof. Savasta dice di aver
            ricevuto da due testimoni oculari, Emanuele Patella, all’epoca
            del suo racconto barbiere in via S. Giorgio, e Antonio Carone che aveva
            la trattoria presso il Castello (poi la trasferirà all’inizio
            di via San Giorgio, nei locali oggi occupati dal ristorante Bacco). P.R. (Febbraio 2004) << vai all'indice
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