| Quel 12 settembre del 1943          … protagoniste le donne Era l’alba avanzata di una bella domenica
            di settembre. Io, che avevo
            solo sei anni, vivevo il clima di guerra come
            un’avventura, contrariamente ai miei genitori
            in continua ambascia per i pericoli che si correvano
            e con la mente rivolta continuamente
            ai miei due fratelli maggiori impegnati su
            differenti fronti di guerra. ma quella mattina,
            mentre dormivo sonni tranquilli, fui improvvisamente
            svegliato da mio padre che mi ingiunse,
            come già accaduto frequentemente,
            di vestirmi in tutta fretta per raggiungere il            “rifugio”, cioè gli scantinati di palazzo Casale,
            in piazza Plebiscito al n. 12, perché era in
            pericolo la nostra vita a causa dell’assalto dei
            tedeschi.Si trattava di un rifugio non autorizzato,
            ma che si presentava molto sicuro anche a
            causa dei lavori di ristrutturazione che tutto
            lo stabile aveva subito in anni recenti.
 Io abitavo al n. 18 della stessa piazza per
            cui ci tornava vantaggioso riparare in quei
            sotterranei.
 Ricordo di essere passato dalla luce tersa
            e limpida della domenica settembrina ai sotterranei
            scarsamente illuminati, ma freschi,
            nei quali troneggiavano botti, per me gigantesche,
            in attesa del mosto della incipiente
            vendemmia.
 Eravamo lì in attesa del cessato allarme
            ormai da circa due ore, trepidi ed ansiosi di
            sapere quale futuro la situazione ci avrebbe
            riservato insieme ad altri conoscenti del
            quartiere, quando improvvisamente vedemmo
            scendere a precipizio per le scale, non
            molto comode, una ventina di soldati italiani,
            armati ma impauriti perché rincorsi da tedeschi
            inferociti.
 Ci fu il tempo per rinserrare il portone,
            caritativamente aperto ai fuggiaschi dal portiere
            dello stabile, di nome Giacinto, ma il
            gruppo dei soldati ebbe modo di immaginare
            il nascondiglio per cui cominciarono a tempestare
            con il calcio dei fucili il portone, in
 verità molto resistente, ma che alla fine cedette
            a dei colpi di arma da fuoco.
 La situazione si faceva drammatica perché
            ci sarebbe stata una prevedibile reazione
            che non avrebbe risparmiato nessuno.
 In quegli attimi di sgomento, di paura, di
            ansia, mia madre assunse il comando delle
            operazioni di salvezza.
 Prima di tutto ingiunse, con fare militaresco,
            ai nostri soldati di privarsi della divisa
            e di tutto ciò che poteva smascherarli quali
            soldati, gettando ogni cosa nelle botti pronte
            per ben altra bisogna.
 Quindi ordinò a tutti gli uomini di riparare
            nel posto più angusto della cantina in modo
            da rendersi riconoscibili il meno possibile.
 A questo punto chiamò tutte le donne
            presenti ed i bambini perché si schierassero
            lungo la scalinata del “rifugio” mentre lei
            stessa con la maestra Garribba, che abitava
            in quel palazzo si schierarono per prime tenendo
            per mano me, che avevo sei anni, e
            mia sorella di nove anni.
 Così, in assetto di cittadini inermi, affrontarono
            i tedeschi, che avevano già imboccato
            la scalinata di discesa, gridando “qui
            solo donne e bambini, indicando, per meglio
            farsi capire, con gesti molto secchi la piccola
            folla schierata.
 Dopo alcuni attimi, carichi di tensione e
            di terrore, uno di loro, forse l’ufficiale di comando,
            ammiccò quasi con scherno “ja, ja,
            solo pampini und frauen” e con un riso sguaiato
            diede ordine al drappello di andare via.
 Nessuno credeva allo scampato pericolo,
            tanto che rimanemmo bloccati dalla paura ancora
            per circa mezz’ora. Erano oltre le nove
            quando, con circospezione, e quasi increduli,
            alla spicciolata facemmo ritorno alle nostre
            case, mentre i soldati rimasero ancora per tutta
            la mattinata, e cioè fin dopo che la mattanza
            dei tredici vigili fu consumata ed io, acquattato
            dietro le persiane del balcone di casa, vidi passare
            il mesto corteo dei nostri soldati catturati
            che si dirigevano verso Foggia con le mani sul
            capo per sperimentare la dura esperienza dei
            campi di concentramento.
 Ho voluto ricordare questo episodio, che
            si aggiunge a quelli già riportati dalle cronache,
            ma soprattutto per sottolineare come atti
            di valore civico in quelle circostanze hanno
            visto spesso protagoniste le donne.
 
 Vittorio Palumbieri (settembre 2011)
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