|   La rivincita di Canne non fu a Zama
            ma a Canosa (209 a.C.) Tutte le storie di Roma, da quelle antiche  a quelle moderne e contemporanee, quando parlano della battaglia di Canne,  individuano in Zama la località dove Roma riportò la sua storica rivincita. Ma  pochi sanno che fra la sconfitta di Canne (216 a.C.) e la vittoria di Zama (202  a.C.), il territorio di Canosa nel 209 a.C. fu teatro di un sanguinoso scontro  fra le legioni di Claudio Marcello - uno dei più prestigiosi e valorosi  generali romani - e l’esercito di Annibale. Dalla battaglia di Canne a quella di  Canosa passarono sette anni durante i quali Annibale cercò in ogni modo di soggiogare  il territorio dell’Italia meridionale attraverso la conquista delle principali  città del Sud. Raggiunse il suo scopo - sia pure con alterna fortuna - con Capua  in Campania, Arpi e Ordona nella Daunia e con Taranto nel Salento. Non ci  riuscirà invece con Canosa la città più rappresentativa della Japigia, che fronteggiò  valorosamente ogni tentativo del Barcide d’impossessarsene. Poiché però la  presenza di Annibale in Italia era durata quindici anni (218-203 a.C.), nel  cono di luce della grande storia lumeggiano due date, su tutte, quelle più  rappresentative della campagna annibalica, la sconfitta di Canne e la vittoria  di Zama, l’una in Apulia e l’altra in Tunisia, uno scontro decisivo per l’esito  finale della seconda guerra punica, tanto più prestigiosa in quanto conseguita,  come diremmo oggi con linguaggio calcistico, fuori casa. Ed ecco perché quella  di Canosa è una vittoria restata un po’ in ombra, e tuttavia rappresenta pur  sempre la prima grande rivincita di Roma su Cartagine.
 Ettore Pais, nella sua “Storia di Roma  durante le guerre puniche” (Ed. Optima-Roma 1927, vol. I, lib. III, cap. VI),  si chiede “se le sorti della guerra non  avrebbero preso un’altra piega, qualora Canosa avesse ceduto alle armi del  generale cartaginese. Ma Canosa, protetta da una possente cinta muraria lunga  11 chilometri, non aprì le sue porte all’esercito nemico, non cedendo mai né  alle lusinghe né alle minacce di Annibale, e sarà per questo che Roma -  all’indomani della guerra - la premierà togliendo ad Arpi a nord e a Taranto a  Sud il primato della regione Apulia, elevandola a ‘caput regionis’, condizione  di un predominio territoriale che durerà fino alle guerre italiche” (fine I  sec. a.C).
 Argomenta Arnaldo Momigliano sulle fonti  della battaglia di Canne (G.D.E. UTET – Torino 1936 alla voce “Puniche”): “Sarà perché a Canosa il numero dei morti  romani fu elevatissimo, quasi quanto quello del nemico (seimila contro ottomila),  già dagli annalisti romani quella battaglia non è ricordata come meriterebbe, e  cioè come la rivincita di Canne, una delle più cruente e decisive vittorie  della guerra annibalica, combattuta e vinta da uno dei suoi più grandi  generali, Claudio Marcello.  Intanto spianò la strada alla riconquista di Taranto…”.
 Nel  contesto della campagna annibalicaMa come si inquadra la battaglia di Canosa, nel  contesto della campagna annibalica nell’anno 209? I fronti militari che  quell’anno impegnavano l’esercito romano in Italia erano tre in altrettanti  assedi a Capua, Canosa e Taranto. Fulvio Flacco fu mandato a Capua, Fabio  Massimo a Taranto e Claudio Marcello a Canosa. Fabio Massimo, prima di partire,  scrisse però una lettera al collega Claudio Marcello invitandolo a tenere  impegnato Annibale, sotto le mura di Canosa, almeno fin tanto che lui non  avesse riconquistato Taranto. Quando questa città fosse stata strappata al  Cartaginese, cacciato da ogni parte, questi senza avere più un posto dove  attendarsi, né alleati su cui contare, non avrebbe più avuto ragione alcuna per  fermarsi in Italia.
 Racconta Tito Livio: “Marcello, sia perché era stato sollecitato dalla lettera del console  Fabio Massimo, sia perché era convinto che nessun generale romano fosse pari ad  Annibale quanto lui, partì per affrontare Annibale a Canosa”. Ancora una  volta, infatti, il Cartaginese s’era portato sotto le mura della città, per  indurre i suoi abitanti ad aprirgli le porte. Occupare infatti Canosa - dopo  Capua, Arpi e Taranto – gli avrebbe dato un grande vantaggio strategico sullo  scacchiere delle operazioni militari nel Sud Italia, tale da ribaltare le sorti  della guerra.
 Quando fu  informato che Marcello si avvicinava, il Barcide levò il campo dell’assedio  perché i suoi attendamenti erano allo scoperto e non offrivano alcuna  possibilità di nascondersi per tendere insidie; perciò Annibale cominciò a  dirigersi verso luoghi selvosi circostanti.
 “Marcello intanto  lo incalzava senza dargli tregua - racconta ancora Tito Livio -, si accampava di fronte al nemico e, appena  costruite le trincee, conduceva fuori le legioni pronte a dar battaglia. Annibale,  a sua volta, provocando piccoli scontri con squadroni di cavalieri e con  frombolieri di fanteria, non giudicava opportuno giungere ad una battaglia  campale, su un terreno pianeggiante poco propizio alla sua tattica. Ma alla  fine non poté sottrarsi al combattimento”.
 Marcello nelle ore pomeridiane si mise ad  inseguire Annibale che si era allontanato dall’assedio della città e si era  spinto alla ricerca di luoghi impervi più adatti alla sua tattica militare.  Quando poi il Cartaginese stava per drizzare gli accampamenti, dietro un  poggio, Marcello glielo impedì assalendo da ogni parte i soldati occupati nelle  fortificazioni. Quando ormai si avvicinava la notte, le schiere romane  sospesero ogni azione di guerriglia e si ritirarono. A quel punto scontrarsi in  una battaglia campale risolutiva era diventato inevitabile e indifferibile. “Così il giorno dopo – racconta ancora  Tito Livio -, quando Marcello condusse in  campo i suoi soldati, Annibale non si sottrasse al combattimento, esortando con  molte parole i suoi affinché – ricordandosi della vittoria di Canne –  fiaccassero l’insolente baldanza del nemico. Così i Cartaginesi attaccarono  battaglia con accanita energia e fu tale l’impeto dello scontro, che l’esercito  romano si sbandò, e ci furono anzi dei manipoli che si diedero alla fuga  contribuendo alla sconfitta dell’esercito romano”.
 La battaglia di Canosa, ricordata sinteticamente  da più di un memorialista romano, è ricostruita invece dettagliatamente da Tito  Livio, che ne descrive l’esito incerto e contradditorio fra le due giornate  nelle quali si svolse: nella prima – come abbiamo visto –l’esito arrise alle  armi puniche mentre nella seconda, quella conclusiva, prevalse l’abilità e la  determinazione del console Claudio Marcello che portò il suo esercito alla  vittoria. Le perdite furono rilevanti per entrambi gli schieramenti: in tutto  circa 14mila morti, fra Romani e Cartaginesi. Relativamente alla seconda  battaglia, quella definitiva, accreditata dagli analisti come una vittoria di  Roma, ridiamo la parola a Tito Livio, che ce la espone in tre paragrafi, dal 12°  al 14° del XXVII libro della sua “Storia  di Roma”.
 La battaglia di Canosa secondo Tito Livio“Il  giorno dopo i soldati romani si presentarono al campo secondo l’ordine  ricevuto, armati ed in pieno assetto di guerra. Il generale [Claudio Marcello]  li elogiò, dichiarando che avrebbe condotto in prima fila coloro che avevano  determinato la fuga del giorno prima, nonché le coorti che si erano fatte  togliere le insegne. Il suo ordine era questo, che dovevano combattere e  vincere e che ciascuno per conto suo e tutti quanti insieme, dovevano fare ogni  sforzo perché a Roma la notizia della vittoria di quel giorno giungesse prima della  sconfitta del giorno precedente. Ai soldati fu poi comandato di confortare il  corpo col cibo, per mantenere gagliarde le forze, se la battaglia si fosse  prolungata. Quando furono dette e fatte tutte le cose necessarie a rinvigorire  l’animo e il corpo dei soldati, le schiere avanzarono verso la linea del  combattimento.
 Allorché  Annibale apprese queste notizie, esclamò: “Ci troviamo proprio di fronte un  nemico che non può sopportare né la buona né la cattiva sorte! Se vince,  incalza accanitamente i vinti, se perde, rinnova da capo la battaglia contro i  vincitori”. Ordinò, quindi, di dare con la tromba il segnale e condusse in  campo le sue milizie.
 Da  ambedue le parti si combatté più ferocemente del giorno prima; i Cartaginesi si  sforzavano di conquistare l’onore della vittoria come nel giorno precedente, i  Romani, dal canto loro, si accanivano per cancellare la vergogna della  sconfitta. Dalla parte dei Romani combattevano in prima linea l’ala sinistra e  le coorti che avevano perduto le insegne; all’ala destra era schierata la ventesima  legione. I luogotenenti Cornelio Lentulo e Claudio Nerone comandavano le due  ali; Claudio Marcello comandava il centro dello schieramento che incoraggiava  con le sue esortazioni. Dalla parte di Annibale gli Spagnoli tenevano la prima  linea, formando così il nerbo di tutto l’esercito.
 A  lungo la battaglia fu incerta, poi Annibale comandò di portare gli elefanti in  prima fila, nella speranza di seminare in tal modo nelle linee romane  scompiglio e spavento. Dapprima, infatti, le belve sconvolsero le insegne e le  file dei soldati romani; parte di essi furono calpestati, parte di quelli che  erano vicino agli elefanti si dispersero per lo spavento; così rimase scoperto  un fianco dello schieramento.
 La  fuga sarebbe dilagata se il tribuno dei soldati Decimo Flavo, afferrata  l’insegna del primo manipolo degli astati, non avesse comandato al manipolo  stesso di seguirlo là dove le belve raccolte insieme avevano portato il massimo  scompiglio; diede allora l’ordine di scagliare contro di esse i dardi. Tutti  quanti i giavellotti colpirono il segno, cosa non difficile trattandosi di  corpi così grandi, che ad una distanza così breve si presentavano in quel  momento come una massa compatta. Le belve allora si lanciarono con maggior  violenza contro i Cartaginesi e seminarono fra questi una strage più grande di  quella che avevano provocato fra i nemici. La fanteria romana si precipitò  contro la linea nemica sconvolta dal passaggio degli elefanti e senza grande  lotta travolse i Cartaginesi.
 Allora  Marcello lanciò la cavalleria contro i nemici in fuga; la battaglia non ebbe  fine prima che i Cartaginesi, terrorizzati, non furono respinti fino ai loro  accampamenti. In questa battaglia [fra la prima e la seconda giornata] fu fatta  grandissima strage di nemici; circa 8.000 uomini furono uccisi e cinque  elefanti. Ma nemmeno per i Romani la vittoria fu incruenta; delle due legioni  caddero circa 6.000 soldati, moltissimi i feriti tra i cittadini e gli alleati.  Annibale nella notte seguente mosse il campo; la quantità dei feriti impedì a  Marcello d’inseguirlo come ardentemente desiderava”.
 Dopo la campagna annibalica (218-202  a.C.), con la degradazione di Taranto che aveva patteggiato per Annibale,  Canosa, elevata da Roma a nuova “caput  regionis Apuliae”, visse un periodo di straordinario benessere economico.  La città contava 50mila abitanti e la sua popolazione era dedita  prevalentemente all’agricoltura, all’artigianato e al commercio, alimentato dal  vicino molo di Bardulos e dal fiume Aufidus, che allora era navigabile e  collegava Canosa con l’Adriatico.Alterne vicende vivrà ancora Canosa  nell’età repubblicana, segnate dalla Guerra  degli Italici (91 a.C.) e dalla Guerra  civile (88-86 a.C.) quando, a causa della sua ribellione, perduta da tempo  il suo primato regionale, la città sarà ridotta a municipium.
 Renato  Russo(15 gennaio 2017)
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