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Dieci anni senza Iorio

Per un singolare gioco del destino, il 13 febbraio del 2007, scompariva Raffaele Iorio, uno dei più acuti studiosi barlettani che alla Disfida di Barletta aveva dedicato controversi studi

Qualche giorno fa, ascoltando nella Sala Rossa le dotte relazioni di qualificati docenti di storia medievale che affrontavano con grande autorevolezza scientifica approfondite tematiche sulla Disfida di Barletta, ricorrendo il decimo anniversario della sua morte, è affiorato dalla memoria il suo ricordo (Iorio morì a Bari il 13 febbraio del 2007), e per qualche istante l’ho immaginato al tavolo dei relatori, sicuro che la sua fluente disinvolta dialettica non avrebbe sfigurato fra tanti dotti cattedratici, lasciando anzi in tutti l’incancellabile tratto del gusto eccentrico della sua arguta facondia. E vogliamo ricordarlo proprio in occasione del celebrato certame, come se fosse ancora vivo in mezzo a noi, dalle pagine della Gazzetta con cui il nostro aveva uno speciale rapporto, il quotidiano che gli riservava uno spazio speciale nella rubrica delle “lettere” e paginoni d’apertura in occasione di grandi eventi storici, come appunto la Disfida di Barletta.

La prima volta che Iorio parlò in pubblico della Disfida, fu il 13 febbraio del 1998 nel Teatro Comunale Curci, nel convegno organizzato in occasione delle celebrazioni del 495° anniversario della ricorrenza, al quale il sindaco Salerno aveva suggerito come tema Ettore Fieramosca, da capitano di ventura a eroe romantico. Ad assegnargli il suadente intervento, l’assessore alla cultura Anna Maria Cafiero che forse non si era preoccupata di interpellare lo studioso sull’indice di gradimento che egli provava verso il noto fatto d’arme. A disquisire con lui dal palco il prof. Angelantonio Spagnoletti (che con Rivera Magos ha introdotto ieri l’altro il Convegno sulla Disfida), direttore della “Rassegna storica del Risorgimento Italiano”.
Sapevo vagamente della sua idiosincrasia per la Disfida, ma non immaginavo che Raffaele avrebbe affrontato il tema in antitesi col titolo della conferenza, cioè presentando il nostro eroe come uno di quei capitani di ventura del suo tempo, mercenario al soldo degli spagnoli. Superfluo dire quanto questa avversa ricostruzione del mitico eroe sconcertasse i presenti.
Divenuto di lì a qualche mese presidente della sezione di Barletta della Società di Storia Patria, Iorio non sarà più chiamato a relazionare in pubblico sulla figura del Fieramosca, ma non vi si poté sottrarre cinque anni dopo, nel 2003, in occasione delle celebrazioni del Cinquecentenario della Disfida. Interpellato dalla Gazzetta che nello speciale gli assegnò il pezzo di apertura, ripropose pari pari i suoi sedimentati convincimenti semmai arricchendoli di ulteriori più aggiornate motivazioni. Quindi, poco dopo, riprese l’argomento nel bollettino sociale della sezione, “Baruli Res”, numero monotematico dedicato al Cinquecentenario, già dal titolo dandoci un’idea di come egli considerasse quel fatto d’armi: L’attualità della Disfida, un’aggiornata meditazione più di una falsa esaltazione.
Iorio, lancia in resta, fin dalle prime battute del suo articolo, si mosse nel solco della chiave interpretativa degli autori scettici sul noto fatto d’arme.
Sì, la Disfida. Pennacchi e vessilli, trombe e quadrupedi, forse faranno sorridere, ma il punto è proprio qui. Com’è possibile che, nonostante la rozzezza improvvida e la generosa improntitudine con cui è stato gestito, un mito riesca a vivere e a sopravvivere per mezzo millennio? Il viluppo di storia e di invenzione, di verità e di fantasticheria in cui la Disfida si avvolge e ingarbuglia, diventa emblema del compito e della ragion d’essere di Storia Patria: che è quella di mediare e insieme nutrire lo slancio dell’intuitività ingenua da un lato e il rigore dell’indagine scientifica dall’altro. La cultura senza fantasia è erudizione, la ricerca senza passione resta una zitella infeconda”.
Ancora una volta si delineava subito il contrasto fra opposte ragioni di valutazione di un evento storico controverso: da un canto l’esistenza, avvertita dallo studioso, della puntuale ricostruzione dei fatti certificati documentalmente, dall’altra la prospettiva di una fruizione in chiave patriottica ma anche editoriale perché il d’Azeglio si misurò coi Promessi sposi del suocero Alessandro Manzoni dando lui pure alle stampe quaranta edizioni della sua Disfida in pochi anni.
Ma intanto sta di fatto che l’“Ettore Fieramosca” del d’Azeglio - con le sue pletoriche edizioni - permeò di patriottico orgoglio tanta parte del popolo, di quel popolo che a quel tempo era diviso in un gran numero di staterelli. Ridistribuzione territoriale e ragioni geo-politiche con risvolti economici. Dunque per Iorio era niente di più che un problema di riassetto territoriale finalizzato alla ricomposizione di una nazione. E vi par poco?

Iorio si arrovella nella puntigliosa ricostruzione degli eventi, inquadrandoli nel loro tempo, segnati da una data fondamentale, l’11 novembre del 1500, che a cavallo di due secoli, col trattato di Granada, segnando la fine del Regno di Napoli, segnava al tempo stesso l’inizio di una nuova dinastia, quella spagnola che governerà il Mezzogiorno per oltre due secoli. E Barletta? cosa contava Barletta in questo rimescolamento di confini e di dinastie?
“Barletta - avverte Iorio - fa da cerniera strategica su cui gravitarono entrambe le armate, forte ciascuna di 6-8000 uomini. Quella spagnola, comandata da Consalvo da Cordova si trincerò nel castello resistendo per due anni fino allo stremo di viveri e di armi. E, a incalzarle, quella francese agli ordini di Luigi d’Armagnac duca di Nemours. La guerra di logoramento e di posizione, le imboscate e le scaramucce, i diversivi tattici, sono i tempi lunghi d’una partita che attendeva il momento giusto per la mossa vincente. A deciderla fu, ai primi d’aprile del 1503, l’arrivo della flotta spagnola con 2000 lanzichenecchi. Il 27 Consalvo lasciava Barletta; il 28 a Cerignola batteva i Francesi”.

In questa puntigliosa ricostruzione dei fatti, in una cornice d’ampio respiro europeo, è scontato come l’enfatizzazione di questo modesto episodio, un comune certame del tempo - sia pur vittorioso - flebile fiammella nella profonda oscurità di un tardo medioevo ancora lontano dall’Unità d’Italia, irriti e sconcerti lo studioso che, nella sua lungimirante ottica, confrontando quei tempi coi nostri, riscopre ben altri exempla. “E dunque, le greggi della “Mena delle pecore” come il petrolio. I tratturi come gli oleodotti. Il Tavoliere come l’Iraq o la Cecenia. Barletta come Baghdad. E Fieramosca? Come Ronaldo, forse, ma certamente la spada come il pallone e il braccio come il piede. A pagamento, cioè. Qual è la loro Patria? Quale Italia?”.

Qual era l’Italia sedimentata nell’animo dei Tredici? La vittoria per l’accaparramento di un gruzzolo di ducati alla ricerca di una gloria imperitura? Quei cavalieri, che la sorte aveva accomunato per caso in uno scontro cavalleresco, in uno sperduto campo della Terra di Bari, probabilmente non erano neppure consapevoli del nobile valore della sfida e la svolta storica che avrebbe significato - simbolicamente - tre secoli dopo, fra bandiere multiblasonate e vessilli al vento. Dunque, eroi loro malgrado.
Eppure, circoscritta la realtà storico-politica su un ampia scenografia continentale, attraverso il piccolo spiraglio di una flebile luce, nell’oscurità di una terra dispersa, l’affannosa corsa di tredici cavalieri e un gagliardo capitano su una terra di nessuno, faceva intravedere la nascita di un’idea, il sentimento di un’Italia che non c’era ancora, ma che si sarebbe ritrovata tre secoli dopo.
Partendo da un romanzo, cioè attraverso una fantasiosa ricostruzione, quell’episodio sarebbe riemerso dal buio nel quale era stato relegato. E gli italiani fino alla metà dell’Ottocento, ancora divisi in principati, ducati e marchesati, ne avrebbero colto il valore identitario-unitario, per trasmetterlo fino a noi. L’Ettore Fieramosca del d’Azeglio ci avrebbe aiutato a capire e quindi a precorrere i tempi.

Ma, a parte la visione ioriana che si presta a valutazioni riduttive, ancora oggi la Disfida si accende di fantasmagoriche luci, tra il rullare dei tamburi e la bombarda di 100 cannoni che animano il grande scenario nazionale ed europeo nell’ambito del quale si anima la Disfida, i suoi personaggi grandi e minori, fra i quali Luigi XII di Francia e Ferdinando il Cattolico, il gran capitano Consalvo da Cordova e Luigi d’Armagnac signore di Nemour, i sovrani aragonesi del Regno di Napoli e papa Alessandro VI, per non dire dei gran signori delle corti italiane, su tutti Lorenzo de’ Medici signore di Firenze e Ludovico il Moro duca di Milano, alla cui corte si aggiravano, per i grandi ambienti del palazzo sforzesco, Leonardo da Vinci e la duchessa Isabella d’Aragona, una delle più affascinanti dame del Rinascimento, alla quale una recente parte della critica artistica italiana attribuisce - non senza qualche ragionevole fondamento - il ruolo di ispiratrice della leonardesca Gioconda.

Renato Russo
(16 febbraio 2017)

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