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 150 anni fa l’eccidio di Barletta
            in danno della locale Chiesa Evangelica19 marzo 1866, una pagina oscura della nostra storia
 Barletta fu teatro - il 19 marzo 1866 - di un drammatico avvenimento, la  morte di cinque protestanti della locale Chiesa Evangelica, che ebbe risonanza  nazionale (la vicenda fu dibattuta nella seduta parlamentare del 20 aprile). A  distanza di 150 anni, la chiesa locale – per bocca del suo arcivescovo mons.  Giovan Battista Pichierri – ha espresso pentimento per quel tragico evento, e  nell’anno della Misericordia ha voluto rendere una testimonianza all’invito del  Santo Padre, manifestando contrizione per quella pagina efferata. Il ravvedimento, che ha un significativo valore morale e che certo non  coinvolge direttamente la Chiesa di quel tempo né tanto meno quella di oggi, si  riveste però di un forte significato simbolico come tangibile segnale di una  ritrovata fraternità nell’amore in Cristo. Oggi le due chiese di Barletta –  quella cattolica e quella evangelica – hanno convenuto, ciascuna, di murare una  targa riparatoria a memoria di quei tragici accadimenti, il significato del cui  gesto è frutto di una ponderata riflessione da parte del nostro Clero. Ma  perché questo ripensamento sul fatto sia il meditato esito di una profonda  analisi di coscienza, crediamo sia preliminarmente opportuno ricordarne fatti,  misfatti e retroscena.
 *   *  * Il nucleo originario della Chiesa Evangelica di Barletta era nato nel  1865, nel pieno del processo unitario nazionale, ad opera di Gaetano Giannini  originario di Firenze dove, nel 1854, si era convertito alla Chiesa Battista della  quale era diventato un solerte diacono. Si era quindi trasferito a Barletta,  dove aveva dato vita alla locale Chiesa Evangelica la quale, in poco tempo, aveva  reclutato circa sessanta adepti che si riunivano  in un ampio locale, al primo piano di una casa  in via Nazareth che Giannini usava anche come abitazione, di proprietà di tale  Filippo Fusco. Scopo dichiarato della sua attività era quello di promuovere l’istruzione  della povera gente attraverso la sua alfabetizzazione, e quindi attraverso la  lettura e la conoscenza della storia. Non era però un mistero che dietro questo  nobile scopo si celasse anche il proposito di convertire i barlettani al suo  credo religioso che peraltro egli predicava con un linguaggio moderato, senza  indulgere ad accuse contro il papato e contro il clero, com’era costume di  altri pastori evangelici di quel tempo. Opera di apostolato comunque mal vista e osteggiata, oltre che dal clero  locale, dalla popolazione, in misura diversa però, perché mentre la stragrande  maggioranza del popolo era tollerante, c’erano anche alcuni fedeli più accesi,  specialmente quando l’efficace opera predicatoria del Giannini cominciò ad  essere penetrante e a contare numerosi proseliti.
 Per capire l’atmosfera tesa che si respirava in quegli anni a Barletta,  che aveva inasprito gli animi alla vigilia della sommossa, bisogna  contestualizzarla con la tremenda epidemia di colera che, fra la seconda metà  ‘65 e gli inizi del ‘66, aveva colpito la città, una condizione di sofferenza  aggravata dalla siccità che quell’anno aveva prodotto un misero raccolto di  grano, determinando fra la popolazione – specialmente quella meno abbiente –  una grave penuria alimentare e una grande tensione sociale. Situazione che i  più accesi fra i denigratori del nuovo culto attribuirono all’attività  pastorale del Giannini e alla sua perniciosa predicazione.
 Disperazione e angoscia si leggevano sui volti dei più: dopo l’epidemia,  la carestia! Sembrava veramente che una maledizione divina si fosse abbattuta  sulla città, mentre il Governo ignorava e respingeva le richieste di soccorsi  che in simili frangenti neppure il regime borbonico aveva negato. Si faceva  così sempre più largo la superstizione, alimentando la credenza in quanti  cominciarono a dar credito a quegli esaltati che fomentavano odio verso gli  evangelici, attribuendo loro le peggiori sventure che avevano colpito Barletta.
 La crescente animosità era intanto viepiù alimentata dal pulpito di  alcune chiese, poche in verità, nelle quali alcuni sacerdoti – nostalgici del  regime borbonico – loro pure attribuivano le drammatiche condizioni di vita  della popolazione agli evangelici e al nuovo governo piemontese che tollerava  quella malefica presenza.
 La sommossa, che avrebbe generato la strage, non fu la conseguenza di un  gesto sporadico e occasionale ma, come risulterà in seguito dalle carte  processuali, fu la realizzazione di un vero piano premeditato “così che a Barletta – racconta il  cronista – fu iniziata contro i  protestanti una propaganda di odio accendendosi il fuoco della discordia. Un  lavoro di parecchi mesi, vere istigazioni private e pubbliche, non disgiunte da  subdole pratiche, che produssero l’effetto voluto, una sommossa popolare…”.
 *    *   * Tutto ebbe inizio il primo pomeriggio del 19 marzo quando un Commissario  di Pubblica Sicurezza intercettò – nella vineria di Fedele di Troia su Piazza  Plebiscito – un gruppo di scalmanati che, eccitati dai fumi dell’alcol,  inveivano a gran voce contro i protestanti, giurando che ne avrebbero fatto una  strage. Il delegato di polizia, aiutato dai suoi agenti, pensò bene di recludere  questi facinorosi nel reclusorio della Sottoprefettura che a quel tempo era  ubicata nei locali del palazzo un tempo sede del Conservatorio del Monte di  Pietà, su corso Garibaldi 113, di fronte a palazzo De Martino.Usciti dall’osteria e radunatisi sulla cosiddetta “Piazza del Palazzo”  (oggi Massimo d’Azeglio) a quegli agitatori si associarono un centinaio di  popolani avviandosi tutti verso corso Vittorio Emanuele, ignorando le ripetute  intimidazioni degli agenti della Pubblica Sicurezza che cercavano invano di  indurli a più miti consigli. Quella moltitudine, anziché proseguire per Corso  Garibaldi sede della Sottoprefettura, svoltò su via del Pesce (via Nazareth)  dove, all’inizio della strada, abitava ed era il luogo di culto del pastore Giannini.
 Presi da un cieco furore distruttivo, i rivoltosi dopo aver devastato il  pianterreno e ferito il padrone di casa Filippo Fusco e sua moglie Cristina  Petrucci, al piano superiore catturarono Giuseppe Delcuratolo che cercò di  contrastare quell’orda accecata dall’odio dalla quale fu travolto, bastonato e  precipitato dalla finestra sul selciato sottostante e dato quindi al rogo che  su piazza Federico II (piazza Caduti) era stato frattanto appiccato alle  suppellettili del Giannini.
 Del pastore però, il vero obiettivo dell’aggressione, nessuna traccia  perché, avvisato per tempo, s’era dato alla fuga attraverso i tetti, trovando  rifugio presso la casa di un suo amico, il canonico Rizzi, un prete liberale  con un passato di garibaldino.
 Impotenti ad arginare quell’incontenibile furia devastatrice, e temendo  per la propria vita, gli agenti di polizia s’erano frattanto dispersi,  specialmente dopo che un loro delegato, scambiato dalla folla per un  evangelista, era stato brutalmente percosso e ferito al volto con un  coltellaccio.
 Non paghi di queste efferatezze, alcuni energumeni, poc’oltre via  Nazareth, di fronte alla chiesa del Sepolcro, intercettarono il giovane Ignazio  Lanza, che fu fatto oggetto di ingiurie e percosse. Datosi alla fuga, fu però  inseguito fino a largo Castello, per poi essere barbaramente ucciso. La stessa  sorte toccò a un altro giovane, il barbiere Francesco Peres che venne prima  percosso in via Mariano Santo e quindi ucciso davanti alla chiesa di S. Maria  della Vittoria (S. Pasquale). Stessa fine fecero il sellaio Ruggiero D’Agostino  e Domenico Crosciulicchio.
 Quindi la folla tumultuante – in uscita da via Nazareth - si diresse verso  la Sottoprefettura, su corso Garibaldi, dove, avuta ragione dei pochi Carabinieri  che la presiedevano, ne invasero gli uffici distruggendo mobili e suppellettili,  raggiungendo l’ufficio del Sottoprefetto che invano aveva cercato di calmare i  rivoltosi, fatto oggetto anzi del lancio di sassi che lo ferirono gravemente al  volto, e che si salvò guadagnando una via di fuga sui tetti.
 Le forze dell’ordine, frattanto rafforzate dalle truppe militari,  riavutesi dalla sorpresa e dalla inaudita violenza degli aggressori, affrontarono  risolutamente i rivoltosi, e come primo atto dimostrativo arrestarono i due  capipopolo, l’uno recante una croce e l’altro una bandiera nazionale.
 Solo dopo cinque ore di una violenta guerriglia, di saccheggi e di  sangue, ritornò la calma e la polizia, arrestati i capi della rivolta e  rinforzata dall’arrivo delle forze dell’ordine delle vicine città, prese di nuovo  il controllo della situazione. All’arresto di quei primi caporioni, nella  stessa serata dei tumulti furono eseguiti altri arresti in nottata.
 Il giorno dopo giunsero in città il Giudice Istruttore, il Procuratore  del Re e il Procuratore Generale della Corte di Appello di Trani che dopo  diversi giorni formularono l’incriminazione per 232 persone delle quali 166  erano già agli arresti e per altri 66 fu emesso mandato di cattura.
 Al termine del processo solo trentasei indagati furono ritenuti  colpevoli.  Il processo per i fatti di  Barletta durò un anno e mezzo. La Corte era costituita dal presidente Teseo de  Lectis e dagli assessori (giudice a latere) Salvatore Inchingoli e Achille  Borghi. In forza degli articoli 21-22 e 75 del Codice Penale, 568-569 del Codice  di Procedura Penale, vennero inflitti diciotto anni di lavori forzati e  l’interdizione perpetua dai pubblici uffici al canonico della Cattedrale don Ruggiero  Postiglione e al predicatore padre Vito Maria da Rutigliano (al secolo Angelo  Marzovillo), ritenuti i maggiori responsabili della sommossa perché con le loro  prediche quaresimali, intrise di fanatismo, avevano eccitato i fedeli  contribuendo ad alimentare un’atmosfera di intolleranza nella quale erano  maturati quei tragici eventi. Gli altri imputati furono condannati da uno a  dieci anni di reclusione.
 Il velo dell’oblio fu steso su quei drammatici fatti che la città volle  dimenticare tanto che non sono pochi gli storici locali che, quasi per una  tacita intesa condivisa, deliberatamente ignorarono questa oscura pagina della  nostra storia. L’ultimo atto, prima della loro damnatio memoriae, fu un provvedimento del sindaco Niccolò Parrilli  che, nella seduta del Consiglio Comunale del 20 aprile, con determina 223,  deliberò di coniare una medaglia di argento “per quegli agenti e quei militari valorosi che avevano concorso a  salvare la Patria da maggiori sventure”.
 Il 9 giugno di quel medesimo anno lo stesso sindaco riceveva a Barletta il  colonello Menotti Garibaldi per concertare la grande adunata, in piazza Libertà  (Piazza Stazione) dove il 25 giugno sarebbero confluiti 12mila garibaldini  dell’Italia del Sud. Il IX Reggimento della Brigata Barletta, costituito dai soli  barlettani, al comando dello stesso Menotti Garibaldi, di lì a un mese - il 21  luglio - si distinguerà alla battaglia di Bezzecca contribuendo, con l’eroismo  dei nostri garibaldini sulla linea del fuoco, all’unica vittoria sul campo  della III Guerra d’Indipendenza. Vittoria che contribuirà, a distanza di pochi  mesi dal tragico evento, a ricacciare, nel buio della dimenticanza,  quell’esecrando eccidio.
 Renato Russo(19 marzo 2017)
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