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Boemondo d’Altavilla principe di Antiochia
nel novecentesimo anniversario della morte

Da noi, si sa, le ricorrenze centenarie costituiscono la spinta sollecitatoria alla riesumazione di avvenimenti o di personaggi a lungo trascurati, quando non del tutto dimenticati, come per l’estenuante attesa che ha avvolto nella penombra medievale la figura di Boemondo di Altavilla, fantasma inquieto, che quasi per dissolvenza, affiora dalla incerta e fioca luce di un remotissimo passato. Occasione unica e irripetibile perché, dalla recuperata visibilità della sua offuscata figura, in occasione degli incontri convegnistici come dei ricorrenti approfondimenti storiografici, riemerga da una plurisecolare solitudine e si offra finalmente all’attenzione di un vasto pubblico, una grande figura, una delle più incisive e rappresentative della storia di Taranto, di Bari e di Canosa e più in generale della Puglia normanna: di Taranto, perché essendo il suo nome in forme stereotipizzate legato alla anemica storia di quel principato, ci offre la possibilità di affrontare e di approfondire un tema restato così a lungo relegato ai margini di una ricerca dagli esiti finora incerti e contraddittori; di Bari, di cui fu lungamente signore e dove per anni soggiornò sia prima che dopo la sua decennale permanenza orientale; di Canosa, perché la città nella quale il nostro eroe ha finito - in certa misura - coll’identificarsi, rilanci il suo mito più fertile, un testimonial unico, che può rinvigorire la nostra industria del sole, slargandone gli orizzonti in prospettive non solo storiografiche, ma anche di ritorni turistici; e dell’intera Puglia perché recuperi finalmente alla sua plurisecolare storia la figura di questo straordinario protagonista medievale, un vero normanno pugliesizzato.
Una rievocazione che, rincorrendo il personaggio fra le strette maglie delle coordinate temporali e topografiche del suo tempo e dei luoghi delle sue peregrinazioni, ne esalti la sua immagine così carismatica e ricca di suggestioni temperamentali, e racconti al tempo stesso l’ardito balzo che, dalle coste pugliesi, lo sospinse verso le asprezze balcaniche, e di qui a Costantinopoli, e oltre, verso gli estremi confini dell’Oriente islamico, alla conquista del più grande principato siriano.
Una rievocazione che raccordi, in modo organico ed esaustivo, lo spericolato itinerario del Normanno, dalle contese pugliesi, legate alla conquista della signoria di Bari e del ducato di Puglia, con risvolti avventurosi dai contorni vagamente brancaleonici, alle più esaltanti imprese orientali, proiettate su immaginifici scenari.
È in questo spirito e con questi propositi che, in occasione del nono centenario della sua morte, cerchiamo oggi di delineare la figura, cercando di ricostruire la vita come in un film, attraverso le scandite sequenze di mille fotogrammi, assemblate in tre tempi distinti: il primo, nelle terre calabro-pugliesi, sullo sfondo delle grandi imprese del Guiscardo, dove il nostro eroe diventò principe di Taranto e signore di Bari; il secondo, dominato dallo scenario esotico eppure drammatico della prima Crociata sulla quale Boemondo si impose come l’attore più rappresentativo e spettacolare, che gli altri sovrastò fin dalle prime battute del copione, non solo in altezza, ma di gran lunga il più abile dei comprimari sulla scena per carattere e personalità: più dello svigorito Goffredo di Buglione, del penitente Raimondo di Tolosa, del cinico Baldovino, del vanitoso Ugo di Vermandois.
E il terzo tempo, quello affidato ai posteri, quando ormai l’orologio senza lancette della storia, segna il cammino della nostra memoria, attraverso i fatti e i suoi attori, ma anche attraverso i monumenti celebrativi come il mausoleo che a Canosa lo ricorda. Mausoleo la cui secolare presenza ci induce, di tanto in tanto, a farci l’esame di coscienza, non solo come cristiani, ma anche come storici, per scandagliare le ragioni più profonde di quelle remote imprese in Terrasanta, le Crociate, soprattutto per sciogliere un dubbio e interrogarci sulla loro “santità”, celebrata in oleografiche ricostruzioni, oppure sulla loro “empietà”, come imprese massacratrici perpetrate in danno di popolazioni che altra colpa non ebbero se non quella di appartenere a una religione diversa.

Fra i tanti interrogativi che la nostra perplessa coscienza ci impone, uno soprattutto ci intriga e ci inquieta: ma chi fu veramente Boemondo? E qui la risposta ci risospinge su labirintici percorsi che intrecciano la grandiosità di una mitica epopea, con l’ambiguo percorso - nel bene come nel male - di un protagonista del suo tempo.
Fu, Boemondo, una figura poliedrica dove le luci e le ombre si alternano in un caleidoscopico turbinìo: rivivevano, in lui, tutti i sogni di grandezza del padre Roberto il Guiscardo, con cui aveva in comune il gusto sapido della vita. Avido e inquieto, scaltro e ambizioso, amato e odiato con eguale intensità dai suoi ammiratori come dai suoi detrattori, alternava momenti di spietata crudeltà ad altri di magnanima generosità. Aveva la parola immaginifica e suadente, l’aspetto magnifico ed altero; incline all’avventura e alle conquiste, era superbo e beffardo nei trionfi, mentre, dalle sconfitte, al contrario del Guiscardo, si ritraeva prostrato e remissivo. In politica era spregiudicato e opportunista, un freddo misurato calcolatore; in guerra un condottiero temerario (l’unico a poter menar vanto di aver sconfitto il basileus), un guerriero valoroso e audace, sprezzante del pericolo e amante del rischio e dell’azzardo che avevano come posta la vita.
Se non fu estraneo ai massacri di cui si macchiò la Crociata, non ne fu neppure il più inesorabile esecutore, e il processo che oggi taluni tentano di fare su comportamenti che gettano ombre su quelle lontane imprese, non dovrebbe mai prescindere dai tempi in cui quelle azioni si verificarono e dalle circostanze in cui maturarono; nulla di nuovo rispetto a quanto era già accaduto in passato e continuerà ad accadere in futuro, fino ai nostri giorni. Per questo non ci sentiamo di esprimere giudizi morali sulle Crociate, soprattutto sulla prima, della quale lui pure fu guerriero implacabile e spietato, ma pur sempre e innanzitutto testimone del suo tempo.
Eppure questo guerriero tanto audace e intraprendente, beffardo e cinico, non fu assistito dalla buona sorte. Talvolta, nella storia di un uomo, basta poco a modificare l’esito di un destino. Nel suo caso sarebbe bastato che gli fosse pervenuta per tempo la lettera inviatagli dal patriarca Daiberto di Pisa con la quale riservatamente gli veniva notificato il decesso di Goffredo di Buglione. Sarebbe bastato che i doganieri bizantini, nel porto di Lattakieh, non avessero intercettato il corriere e sequestrato il messaggio, perché egli concorresse, con notevoli possibilità di successo, alla signoria di Gerusalemme e a ben altra immortalità.
E invece gli imperscrutabili disegni del destino avevano deciso altrimenti, così Boemondo, anziché recarsi nella Città Santa, si diresse verso le anfrattuose montuosità anatoliche, tra i monti del Ponto, dove lo aspettava in agguato il malik Danishmend Gazi che lo avrebbe catturato e recluso per anni. Anni interminabili nei quali non è difficile immaginare quante volte abbia ripensato all’irresistibile impulso che lo aveva spinto a partire alla riconquista della Terrasanta, motivato solo apparentemente da uno slancio religioso, mosso in realtà dal bisogno di un riaccreditamento dinastico, diseredato com’era della primogenitura e delegittimato del titolo ducale.
Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme: le tre fatali tappe del suo ambito riscatto: Costantinopoli, dove s’era imposto come il più temuto dei crociati, Antiochia alla cui conquista aveva offerto il suo determinante contributo, e Gerusalemme sulla cui strada l’avversa sorte gli aveva teso un’imboscata, un inatteso imprigionamento che avrebbe dissolto la sua impresa nel crepuscolo di una disperante attesa. Tre anni: potevano sembrare tanti o pochi, ma in ogni caso lo avrebbero emarginato per sempre da ogni prospettiva di rivalsa.

Le avventurose vicende di Boemondo sembrano una chanson de geste, e ne ispirarono qualcuna, di quelle in cui le avventurose imprese dell’eroe si intrecciano con quelle amorose, arruffate in fantasiosi racconti. E se non ci fu avventura, poco mancò. La tradizione vuole, infatti, che a Costantinopoli l’aitante normanno abbia fatto battere il cuore della principessa imperiale, la porfirogenita Anna, figlia del suo irriducibile nemico, Alessio I Comneno. La quale, nel suo romanzo autobiografico, del crociato pugliese ha scontornato il più fine profilo medievale che sia giunto sino a noi: Era snello – ella ricorda – con spalle larghe, vasto torace, braccia nerborute. Bianchissimo d’incarnato, con capelli biondi scorciati sulle orecchie, sprigionava dai suoi occhi glauchi, temerarietà e maestà. Promanava da questo guerriero un fascino misterioso e sinistro. Corpo e animo erano tali in lui, che determinazione e passione si fondevano. Spirito multiforme, in ogni situazione era scaltro e inesauribile di espedienti e le sue parole erano calcolate e le sue risposte enigmatiche. Anna descrive Boemondo come un eroe terribile e al tempo stesso affascinante, così ben fatto, da sembrare modellato secondo i canoni di Policleto. Sembrava - essa aggiunge - che portasse in sè ardimento e amore ed era secondo solo a mio padre, l’imperatore, per eloquenza e per tutti gli altri doni di cui l’aveva colmato la natura. (Alessiade, XIII, 10, 4-5).
E un altro episodio avventuroso lega la sua liberazione all’innamoramento della bella principessa Melaz, figlia dell’emiro Danishmend, che lo avrebbe aiutato a fuggire dalla prigionia in cui era recluso da tre anni.

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A nove secoli di distanza, l’annunciato restauro del suo mausoleo, che ancora una volta ne ha riattualizzato la figura, ha marcato un’occasione propizia per riesumare la figura di Boemondo dalla spessa coltre di polvere sotto la quale era stata coperta in tutti questi anni, ed è auspicabile che il recente diorama che su di lui ha acceso i riflettori di una rinnovata notorietà, non si spengano, ma rappresentino anzi uno straordinario impulso a farne rivivere il mito e riaffiorare le gesta. Non tanto quelle locali, nelle quali il nostro eroe pure si distinse per abilità e ardimento, quanto quelle crociate che, dal porto di Bari, lo sospinsero nel lontano Oriente, protagonista vittorioso di innumerevoli battaglie.
Figura leggendaria che le pagine del nostro reportage, pur alimentate dal contributo di antiche cronache, vogliono tuttavia ridestare dal buio spettrale di un’esistenza senza tempo, per infondergli anima e vita e restituirlo all’attualità di una dimensione umana. Con l’intento di sottrarre l’immagine del grande Normanno alla nostalgia di certa oleografia provinciale di arretrato sapore romantico, per restituirgli le doti del condottiero abile e spregiudicato, e recuperare così una vena di simpatia per l’uomo, incurante com’era dell’incombente minaccia della morte sempre in agguato, sospesa fra l’imponderabile traiettoria di una freccia acuminata e un fatidico bacillo epidemico come quello che uccise suo padre.
Partendo dall’epopea normanna, che fa da cornice alla storia stessa della nostra terra, il racconto della vita di Boemondo s’inoltra lungo gli impervi percorsi desertici di un Oriente ammaliatore e crudele, alla conquista di un regno per la realizzazione di un sogno coltivato col padre lungo un percorso trentennale: l’espugnazione e l’insignorimento dell’Impero di Bisanzio.

Sul fondale del palcoscenico, s’anima di fosche tinte rossastre la rappresentazione della Crociata la quale, al di là delle retoriche celebrazioni convenzionalmente esaltatrici o preconcettualmente denigratrici, fu comunque, per l’Europa cristiana, e per l’Oriente islamico, un evento al tempo stesso tragico e grandioso, rappresentando pur sempre l’avvenimento saliente della storia europea nel cuore del Medioevo, che la moderna storiografia sta illuminando con una serie di pregevoli studi e di approfondite ricerche.
Sullo sfondo di un recupero culturale e di una rivalutazione del Medioevo in chiave romantica, ma al tempo stesso storiograficamente disincantata, mi auguro che anche queste giornate boemondiane concorrano a riaccendere le luci sulla ribalta di questa antica rappresentazione crociata, per fare riecheggiare l’eco di lontane risonanze sull’avventurosa esistenza del suo protagonista più ardito, e rimuoverlo dalla smemorata galleria del mito, per proiettarlo nel cono di luce più intenso e luminoso della grande storia.

Renato Russo

(2 maggio 2011)

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