|   Michele Chieco,poeta della tela e dei colori
a vent’anni dalla scomparsa
 Vent’anni fa, il  19 maggio 1996, moriva il pittore Michele Chieco, uno straordinario interprete  artistico del suo e del nostro tempo. Un pittore la cui perizia creativa la  lontananza del tempo non ha scalfito e che oggi riaffiora da un passato neppure  tanto remoto per rinverdirne il fecondo talento espressivo, arioso e solare,  lieve e trasparente come le sue diafane tele. Mite e generoso, artisticamente  esigente, Chieco era dotato di una ricchissima spiritualità interiore, di un  ispirato estro inventivo che manifestava attraverso la pittura.E lo faceva dalla  solitudine agreste della sua infanzia, fin da quando, giovane contadino nelle  campagne di Ruvo, non venne casualmente scoperto da una signora che lo  apprezzò, lo incoraggiò e lo sospinse sulla strada del proprio destino.
 Schivo, riservato  ai limiti della ritrosia, Chieco conduceva la sua vita con la semplicità di un  artigiano di altri tempi. In pensione da anni, la sua condizione di uomo libero  gli consentiva di applicarsi alla pittura con una dedizione assoluta che  esprimeva, in una solitudine artistica e spirituale, con una creatività  prevalentemente notturna, quando maggiore è il distacco dalla quotidianità  delle cose e più intensa è l’ispirazione.
 Autodidatta, non  aveva mai smesso di imparare, di analizzare, di approfondire, sempre aperto e  disponibile, ripagato talvolta, per sua generosità, con ingratitudini alle  quali reagiva con un distacco venato di tristezza.
 Chieco dipingeva  di tutto, ma è il modo in cui dipingeva che era unico e irripetibile. I suoi  dipinti si ispiravano alla sua terra, alle sue case semplici, ai suoi paesaggi  rarefatti - i suoi temi preferiti - nei quali trasfondeva la sua interiorità,  la sua sofferente (perché mai paga) instancabile ricerca del bello.
 I colori sono  tenui, delicati, le sue tele chiare, il tratto è nitido, colpiscono quei grigi  madreperlacei sempre cangianti in una varietà cromatica delle molteplici  sfumature. Vi è, nella sua pittura, come la ricerca di un linguaggio poetico,  silenzioso, assorto, metafisico. Non per nulla i suoi paesaggi sono senza  soggetti, come fissati nel tempo e scolpiti nella memoria.
 I paesaggi di  campagna, diafani, sia che li abbia colti alle prime luci dell’alba, oppure  nell’assolato meriggio di un tramonto. Gli alberi, forti e vigorosi e con  profonde radici, con mille solchi sui suoi secolari tronchi, come le scavate  rughe che segnano il volto dei contadini che li hanno coltivati. I paesaggi  urbani, in lontananza, appena abbozzati, nella ritmata successione di casette  bianche, su verdi colline digradanti verso il basso, la fuga degli archi in  stradine sperdute, i comignoli su tetti sconnessi…
 Se all’abitato ti  avvicini, ti perdi in un labirintico gioco di vicoli stretti e brevi, con case  basse e senza tempo, perché ti accorgi che sono le antiche dimore dei nostri  nonni contadini o artigiani, o speziali, … perché non sai immaginare che dietro  a quei portoni sbarrati o a quelle finestre chiuse, ad abitarle ci siano uomini  moderni con l’auto e con la fretta di arrivare…
 Qui tutto è  fermo, da tempo immemorabile fissato dietro una persiana appannata, o sull’arco  di una casa imbiancata o sul minuscolo balcone o sulla scaletta che porta  all’ammezzato o sul comignolo di un tetto dirupato…
 Vicoli stretti,  chiusi, tenuemente colorati ma più spesso soltanto chinati, vicoli modesti, ma  intensi di angoli, di rette, di curve interrotte da linee che si rincorrono, si  raggiungono, si intersecano in un ritmo geometrico semplice e lento. Il leggero  tocco del pennello visualizza bianchi acciottolati, corte viuzze, piazzette con  selciati lastricati, muretti imbiancati con minuscole crepe, balconcini angusti  e piccole ma ripide scale con gradini di pietra antica che un’usura secolare ha  levigato.
 E i fiori.  Semplici fiori di campo, stretti da lacciuoli in classiche composizioni  morandiane; o lasciati liberi in un vaso di cristallo, illuminati da un raggio  luminoso rifratto dal vetro socchiuso dell’imposta. Poggiati distrattamente su  un tavolo disadorno, o cascanti da un balcone in intrecci di ghirlande  variopinte. Riprodotti su campi sconfinati, oppure offerti nella raccolta e silenziosa  spiritualità di una mesta funzione religiosa all’imbrunire di una tarda serata  novembrina. Sono i fiori di Chieco, comunque semplici, come il sentimento che  ne anima la creazione. I ritratti bene esprimono la capacità del pittore di  esternare la spiritualità del soggetto, che è la dote più grande di un  ritrattista. La composta ieraticità della madre, sullo sfondo della cattedrale  di Ruvo, quasi a volerne ricordare per sempre le comuni radici, la sofferente  tristezza del Cristo piegato sulla croce ai piedi di un indefinito personaggio  moderno, quasi a simbolizzarne la drammatica attualità. La compostezza del  portamento del Santo Protettore della città, vieppiù arricchita dalla  sontuosità delle bianche vesti che l’adornano; l’ultimo Padre Pio, dipinto a  pochi giorni dalla scomparsa, sorpreso in una mestizia sofferente, nell’abito  monacale che gli copre le ferite del corpo e che lo avvolge come in un  dolorante sudario; e le Madonne, idealizzate da uno sguardo dolce e  comprensivo.
 Infine i suoi  numerosi autoritratti che ne colgono, nel tempo, i segni espressivi di un  mutamento interiore che percorre l’intenso itinerario di un’esistenza ricca di  gioie e intrisa di amarezze: delle piccole gioie domestiche di una quotidianità  senza storia, come delle soddisfazioni che all’uomo e all’artista giungono da  tutto il mondo, col quale, attraverso i suoi quadri, resta in un continuo  stimolante contatto; ma anche di amarezze spirituali e di sofferenze fisiche,  le une e le altre sopportate con dignità e coraggio, sostenute dalla gran  voglia di continuare a vivere e a dipingere. A dipingere e a vivere, perché in  Michele Chieco la vicenda umana e quella artistica inscindibilmente si fondono.
 Questo è stato  Chieco, uomo semplice e di poche parole, di grande fede, uomo della nostra  terra e del nostro tempo, che ha saputo conservare fino alla fine i tratti  dell’antico carattere contadino, generoso e altruista. Questo è stato Chieco,  poeta della tela e dei colori.
 E noi, a distanza  di vent’anni, lo ricordiamo ancora con molto affetto e tanta nostalgia.
 Renato  Russo(20 maggio 2016)
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