|   Annibale scende in Puglia alla vigilia della battaglia di Canne Scampato all’insidia della valle del  Volturno, nell’estate del 217 Annibale cominciò a pensare dove accamparsi per  l’inverno. Saputo che l’Apulia era una terra rigogliosa di messi e  pianeggiante, quindi adatta alle caratteristiche del suo esercito che impiegava  prevalentemente la cavalleria, decise di svernare in quella regione.  Approssimandosi al suo territorio, avendo saputo dai suoi esploratori che nei  pressi della città di Gereonio, a nord di Lucera, si trovava grande quantità di  frumento, e che era parzialmente diroccata delle mura e quindi poteva più  facilmente essere occupata, decise di stanziare lì i suoi accampamenti  invernali. Anche Fabio Massimo allora arrestò la sua marcia e drizzò i suoi  accampamenti nelle terre di Larino, nell’Apulia settentrionale.È il momento in cui Annibale scende  in Puglia e drizza i suoi accampamenti appena al di qua del Fortore. Tra poco  il suo esercito, come uno sterminato sciame di voraci locuste, dilagherà sulla  ubertosa distesa daunia. È la vigilia della battaglia di Canne. Conviene  fermarsi un attimo per fare il punto su quale era lo stato dell’Apulia a quel  tempo, perché ne sia più chiara e definita la condizione dopo la partenza del  Cartaginese, quando saranno trascorsi quei terribili quindici anni della sua  permanenza in Italia, che consacreranno nei secoli la gloria di Roma e, nel  segno di una grande battaglia perduta, anche i prodromi di un’esaltante  ripresa, ma alla nostra sfortunata regione lascerà i durevoli, inconfondibili  segni di una desolata devastazione.
 Giungeva, Annibale, da regioni  acquitrinose e affamate, dove i suoi soldati s’erano impantanati e ammalati  d’inedia, e approdava ad una terra rigogliosa di grano, di vigneti e di  oliveti, d’ortaggi e frutteti e ove fosse occorso anche dar sapore a quei corroboranti  alimenti, a due passi c’eran persino le saline salapine. E ricca di cavalli  (che almeno in parte la sua celebrata cavalleria aveva bisogno di rimpiazzare  ad ogni scontro), che, allo stato brado, in branchi compatti, a migliaia  scorrazzavano per la Murgia e le distese pianure messapiche. Non gli occorse  procedere tanto innanzi, che già a Gereonio trovò frumento in così tanta  abbondanza da sfamare l’esercito per l’inverno intero.
 In primavera, sazia e rinfrancata,  l’armata si dispose a partire, ma superati gli ultimi rilievi collinari,  devastò d’improvviso prima il territorio lucerino, poi quello arpano, non come  dileggio estemporaneo - perché nulla nel Cartaginese era lasciato al caso - ma  per un calcolato disegno terroristico, inteso a neutralizzare preventivamente  ogni velleità difensiva delle popolazioni circostanti. Nella consapevolezza,  infatti, che il momento della resa dei conti era ormai vicino, Annibale voleva  creare le condizioni per uno scontro alla pari. Quindi, facilitato dalla  distesa pianura, in pochi giorni raggiunse l’Ofanto e qui, appena oltre la  riva, s’accampò nei pressi di Canne. La scelta del sito non fu certo dettata  solo dalla convenienza tattico-strategica del luogo che meglio di altri si  prestava ad uno scontro, quanto più verosimilmente perché in quel luogo trovò  egli le condizioni logistiche ideali per una non breve permanenza, cioè  l’abbondanza d’acqua di un fiume copioso e navigabile e il rifornitissimo  emporio che solo pochi giorni prima i coloni canosini avevano stipato del  frumento appena falciato.
 Era, dunque, la Puglia, al tempo  dell’ingresso dell’esercito cartaginese, una regione “pingue”, dice Livio,  dalle gonfie spighe di grano e dalle estese colture cerealicole, con vaste  boscaglie. Da “Canusium a Silvium”, intorno a “Rubi e Norba” e ancora di più  nella piana daunia, intorno alle campagne di Arpi, Dionigi di Alicarnasso  descrive una “terra intensamente coltivata, dai pascoli ondulati che sfamano  immense greggi di pecore”. E Strabone ricorda la “feracità della terra brindisina”  e Orazio “la lussureggiante Taranto, dove i vigneti e gli oliveti si alternano  ai boschi verdeggianti”. Per non parlare dei prodotti artigianali, delle  ceramiche di Ruvo o della lana pregiata di Canosa che Varrone preferiva a  quella spagnola perché “più soffice e resistente” e che non era difficile  trovare esposta nel rinomato mercato di Pompei, su via dell’Abbondanza, luogo  di ritrovo per gli acquisti delle signore della Roma bene di quel tempo.
 Questa era la Puglia che Annibale  trovò al suo affacciarsi sulla nostra terra in quel triste esordio autunnale  della sua campagna militare. Una terra che, a fronte di quelle che fino allora  aveva attraversato, aride, brulle e malariche, dai cieli plumbei e nebbiosi,  era invece non solo feconda, ma si estendeva sotto l’azzurro cielo di un  salutare clima mediterraneo, delimitato da coste - sul lungo litorale adriatico  - bagnate da uno splendido mare.
 Su questa terra si  abbatté la furia devastatrice della guerra, senza scampo per città  alternativamente sollecitate ora dal ricatto ritorsivo cartaginese, ora dal  richiamo alla fedeltà di antichi patti federativi con Roma. “Tertium non datur”,  e alternative liberatorie di tipo neutralistico non ce n’erano. Con me o contro  di me, fino alla soluzione finale, spesso tragicamente ininvertibile, come per “Arpi,  Salapia, Herdonia, Thuriae” sannacica, aggredite dagli uni e dagli altri, ogni  volta con interventi sempre più devastanti, oltre l’incendio e il saccheggio,  fino al diroccamento delle mura e alla sua completa distruzione, con  deportazione finale dei suoi abitanti. Sarà la fine che farà “Herdonia” e non  sarà la sola. Se ne ricorderà il centurione erdonitano che, a distanza di oltre  sessant’anni, con fanatico zelo, per le strade di Cartagine in fiamme,  consumando la sua avita vendetta, s’imbatté in un nauseato Polibio che ce ne ha  tramandato, nel tempo, il lampo d’odio che ancora accendeva il suo collerico  sguardo.
 Renato  Russo(9 novembre 2016)
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