|   Alla vigilia del 2 agosto Annibale scende in Puglia È il momento in cui  Annibale scende in Puglia e drizza i suoi accampamenti appena al di qua del  Fortore. Tra poco il suo esercito, come uno sterminato sciame di voraci  locuste, dilagherà sulla ubertosa distesa daunia. È la vigilia della disfatta  di Canne. Conviene fermarsi un attimo per fare il punto della situazione su  quale era lo stato dell’Apulia a quel tempo, perché ne sia più chiara e  definita la condizione dopo la partenza del Cartaginese, quando saranno  trascorsi quei terribili quindici anni della sua permanenza in Italia, che  consacreranno nei secoli la gloria di Roma e, nel segno di una grande battaglia  perduta, anche i prodromi di un’esaltante ripresa. Ma alla nostra sfortunata  regione lascerà i durevoli, inconfondibili segni di una desolata devastazione.Giungeva, Annibale, da  regioni acquitrinose e affamate, dove i suoi soldati s’erano impantanati e  ammalati d’inedia, e approdava ad una terra rigogliosa di grano, di vigneti e  di oliveti, d’ortaggi e frutteti e ove fosse occorso anche dar sapore a quei  corroboranti alimenti, a due passi c’eran persino le saline salapine. E ricca  di cavalli (che almeno in parte la sua celebrata cavalleria aveva bisogno di  rimpiazzare ad ogni scontro), che, allo stato brado, in branchi compatti, a  migliaia scorrazzavano per la Murgia e le distese pianure messapiche. Non gli  occorse procedere tanto innanzi, che già a Gereonio trovò frumento in così  tanta abbondanza da sfamare l’esercito per l’inverno intero.
 In primavera, sazia e  rinfrancata, l’armata si dispose a partire, ma superati gli ultimi rilievi  collinari, devastò d’improvviso prima il territorio lucerino, poi quello  arpano, non come dileggio estemporaneo - perché nulla nel Cartaginese era  lasciato al caso - ma per un calcolato disegno terroristico, inteso a  neutralizzare preventivamente ogni velleità difensiva delle popolazioni  circostanti. Nella consapevolezza, infatti, che il momento della resa dei conti  era ormai vicino, Annibale voleva creare le condizioni per uno scontro alla  pari. Quindi, facilitato dalla distesa pianura, in pochi giorni raggiunse  l’Ofanto e qui, appena oltre la riva, s’accampò nei pressi di Canne. La scelta  del sito non fu certo dettata solo dalla convenienza tattico-strategica del  luogo che meglio di altri si prestava ad uno scontro, quanto più verosimilmente  perché in quel luogo trovò egli le condizioni logistiche ideali per una non  breve permanenza, cioè l’abbondanza d’acqua di un fiume copioso e navigabile e  il rifornitissimo emporio che solo pochi giorni prima i coloni canosini avevano  stipato del frumento appena falciato.
 Era, dunque, la Puglia, al  tempo dell’ingresso dell’esercito cartaginese, una regione “pingue”, dice Livio, dalle gonfie spighe di grano e dalle estese  colture cerealicole, con vaste boscaglie. Da Canusium a Silvium,  intorno a Rubi e Norba e ancora di più nella piana daunia, Dionigi di Alicarnasso  descrive una “campagna intensamente  coltivata, dai pascoli ondulati che sfamano immense greggi di pecore”. E Strabone  ricorda la “feracità della terra  brindisina” e Orazio la “lussureggiante  Taranto, dove i vigneti e gli oliveti si alternano ai boschi verdeggianti”. Per non parlare dei prodotti artigianali, delle ceramiche di Ruvo o della lana  pregiata di Canosa che Varrone preferiva a quella spagnola perché “più soffice e resistente” e che non era  difficile trovare esposta nel rinomato mercato di Pompei, su via  dell’Abbondanza, luogo di ritrovo per gli acquisti delle signore della Roma bene di quel tempo.
 Questa era la Puglia che Annibale trovò al suo affacciarsi sulla  nostra terra in quel triste esordio autunnale della sua campagna militare. Una  terra che, a fronte di quelle che fino allora aveva attraversato, aride, brulle  e malariche, dai cieli plumbei e nebbiosi, era invece non solo feconda, ma si  estendeva sotto l’azzurro cielo di un salutare clima mediterraneo, delimitato  da coste - sul lungo litorale adriatico - bagnate da uno splendido mare.
 Su questa terra si abbatté  la furia devastatrice della guerra, senza scampo per città alternativamente  sollecitate ora dal ricatto ritorsivo cartaginese, ora dal richiamo alla  fedeltà di antichi patti federativi con Roma. Tertium non datur, e alternative liberatorie di tipo neutralistico  non ce n’erano. Con me o contro di me, fino alla soluzione finale, spesso  tragicamente ininvertibile, come per Arpi,  Salapia, Herdonia, Thuriae sannacica, aggredite dagli uni e dagli altri,  ogni volta con interventi sempre più devastanti, oltre l’incendio e il  saccheggio, fino al diroccamento delle mura e alla sua completa distruzione,  con deportazione finale dei suoi abitanti.
 Sarà la fine che farà Herdonia e non sarà la sola. Se ne  ricorderà il centurione erdonitano che, a distanza di oltre sessant’anni, con  fanatico zelo, per le strade di Cartagine in fiamme, consumando la sua avita  vendetta, s’imbatté in un nauseato Polibio che ce ne ha tramandato, nel tempo,  il lampo d’odio che ancora accendeva il suo collerico sguardo.
 Renato Russo   
 
   1. Il fiume Ofanto2. Il paesaggio daunio che si presentò alla vista di Annibale. In  primo piano le distese delle piantagioni del grano del Tavoliere
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